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lunedì 13 aprile 2015

Aldo dice: ventisei per uno, settant'anni di Resistenza in sei libri (2)

I VENTITRE GIORNI DELLA CITTA’ DI ALBA, di BEPPE FENOGLIO


Eccola la Resistenza che meno piaceva a taluni resistenti. Umanissima, senza retorica, con tanti limiti e contraddizioni, fatta di momenti oscuri, antieroici, addirittura meschini. Perché oscuro e infelice era anche qualche patriota. Fenoglio scrittore non lo nasconde, non è nella sua indole di rude langarolo. Dice quel che pensa, senza peli sulla lingua, evitando autocensure letterarie. Può permetterselo, è  stato partigiano, di quelli che non dovevano fare i conti con l’apparato ideologico e politico dei partiti. E’ rimasto un intellettuale libero, paladino della verità, forte d’una scrittura eccezionale: precisa e bruciante. Presenta combattenti diversi dal politicamente corretto, mostra uomini pieni di tentazioni. Già nell’esordio del primo capitolo va in scena l’anomalìa. A chi sarebbe mai venuto in mente di celebrare la fama dei patrioti che sfilano nella città appena presa con un paragone sportivo? “Sfilano i badogliani con sulle spalle il fazzoletto azzurro e i garibaldini col fazzoletto rosso, e tutti, o quasi, portavano ricamato sul fazzoletto il nome di battaglia. La gente li leggeva come si leggono i numeri sulla schiena dei corridori ciclisti; nomi romantici e formidabili…”. Dinamite, Rolando ma anche Negus, Bimbo, Colonnello e un meno eclatante Biagino. Ma al di là della parata c’è la cruda realtà d’ogni giorno, quella che vide molti combattenti eclissarsi di fronte all’offensiva nemica (”Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in  duecento il 2 novembre dell’anno 1944”) o discutere sulla sorte d’un prigioniero quando questi fa per fuggire e viene steso da una raffica (“Il sergente fece un grande scarto e voltandosi partì verso il torrente. Negus fece la raffica, il sergente cadde rigido in avanti come se la trappola nascosta nell’erba gli avesse abbrancato i piedi. Colonnello scoppio a piangere e diceva a Negus: Perché gli hai sparato? Ci poteva venir buono, facevamo dei patti”).

Il romanzo è strutturato in racconti, tutti vissuti in ambiente langarolo, e alcuni finali collocati cronologicamente nel dopoguerra, a conflitto terminato ma non dimenticato. Lì compaiono intrecci con tanto di colpi di scena, come si trattasse di micro gialli che riproducono, comunque, storie reali di difficoltà sociale e disagio personale (“… da sotto il materasso tirò fuori la pistola. La guardò, se la mise sotto il giubbotto e uscì per andare a lavorare). (Camminava già nell’acqua al ginocchio ed avanzando raccoglieva ancora pietre sott’acqua e se le cacciava in seno grondanti. Arrivò tutto curvo dove più forte era la corrente che portava all’acqua verde). In taluni vengono messe in luce manìe militariste: il culto dell’arma e la furbizia con cui Sgancia approfitta della “recluta” partigiana Raoul per accaparrarsi la di lui pistola in cambio del suo ferrovecchio. Il neo partigiano acconsente a pagare quel tributo al “nonnismo”. O il lugubre sorteggio per chi deve rafficare il nemico dopo la sentenza emessa (Allora spari chi vuole, giocatevela a pari e dispari, non sparatevi solo tra voi due!”) E ancora un capo partigiano, Marco, che nei tempi morti è intento ad amoreggiare con una ragazza piuttosto che pensare a tattiche militari o ai piani politici (C’era un tavolo e sopra una ragazza che fece appena in tempo a serrare le gambe e mandar giù le sottane. C’era pure un uomo che si stava abbottonando la brachetta”). C’è chi fa il partigiano dietro casa (Vado ad arruolarmi col famoso Marco, sarò appena a quindici chilometri da casa. Ciao mamma, ho un debito di sessanta lire al caffè della stazione. Fa il piacere, pagamelo”). Alla faccia del mammismo dei giorni nostri, siamo di fronte a ragazzi mantenuti e scrocconi che prendono la lotta per un diversivo da assolvere dietro le colline note per falò e feste sull’aia.

Però la vita era dura per tutti e prima di beccarsi la raffica del nemico bisognava fare i conti con le bassezze del quotidiano: il ronfare (i respiri e il russare degli uomini coricati sembrano venire da sottoterra”), la materia scatologica (“si sentì un forte plaff! Raoul si parò la faccia con la paglia perché aveva sentito gli schizzi prendere il volo”).  E la realtà e il sogno si mescolano (Ho sognato che t’hanno ammazzato. La repubblica lì fuori sull’aia. Parola d’onore che t’ho sognato”). Ma di fronte all’infamia più grave, il furto, non c’è salvezza né pietà neppure per i vecchi compagni. Anzi, a loro si richiede un comportamento irreprensibile, pena – come accade al navigato Blister – di finire al muro dopo il pestaggio di rito da parte di tutti i componenti della banda. Eppure lui, da esperto filibustiere, spera fino in fondo di farla franca. Crede gli si proponga la finta esecuzione, quella che talvolta veniva usata per stordire psicologicamente chi la subiva, coscritto o nemico che fosse. A Blister andò male perché l’aveva fatta grossa, il comando non poteva sputtanarsi davanti ai contadini, tanto solidali per le derrate. Si fa cenno anche a gesti terribili che qualche partigiano fece mutuandoli dalle sadiche abitudini saloine (C’è un partigiano dei nostri che ha preso uno di loro e prima di finirlo gli ha cavato gli occhi. Io so che il fatto è capitato, ma non c’entro”). Questo coraggio intellettuale con cui non si cela nulla, anche qualche infamia, non fa venire meno la ferma coscienza antifascista e antimonarchica Monarchici le balle - ripeté Kin - Il tuo re è uno schifoso vigliacco, è il primo traditore … Se aveva un po’ d’onta, veniva a fare il partigiano con noi o almeno ci mandava quel puttaniere di suo figlio… “. 

marzo 2004


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