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lunedì 13 aprile 2015

Esercito turco-Pkk, la voce delle armi ad Ağri


Carezza la testa dei suoi ragazzi il primo ministro turco Davutoğlu, recatosi con la consorte in visita al capezzale dei quattro militari feriti in uno scontro a fuoco registrato due giorni fa ad Ağri, la provincia che i kurdi chiamano Qerekose verso il confine iraniano. Nel conflitto armato cinque militanti del Pkk sono fra le vittime. Secondo il premier l’attacco “aveva come obiettivo la Turchia democratica e le prossime elezioni”. Che il clima preelettorale si fosse arroventato da giorni con gli attentati del gruppo marxista combattente Dhkp-c, era apparso sotto gli occhi di tutti; che s’accendesse una schermaglia con uso propagandistico e manipolatorio delle conseguenze sulla sicurezza era un ulteriore passo atteso. Il partito della Giustizia e Sviluppo, secondo parecchi osservatori, pone una nuova ipoteca sul risultato elettorale (per mancanza di consistenza del fronte avversario) ma rischia di subire una flessione delle percentuali che per tredici anni si sono accresciute, una consultazione via l’altra. Stavolta fare l’en plein dei seggi è particolarmente importante perché, seduto sullo scranno che fu di Atatürk, Recep Tayyip Erdoğan considera giunta l’ora della svolta presidenzialista della nazione.

Una questione formale e sostanziale, che riguarda l’assetto di sistema da lui creato col partito-regime, sostenitore di un’affaristica versione del capitalismo islamico, e un suo personalissimo potere con cui s’incorona primo cittadino della popolosa nazione, come faceva nel 1923 il giovane turco poi padre della patria, Mustafa Kemal. A quella ricorrenza altamente simbolica punta l’attuale kemalista-islamico che, dopo gli strabilianti successi da leader e premier, dalla più alta carica statale cerca di accrescere ulteriormente il potere. Per farlo in sicurezza dovrebbe cercare sponde, che sia il reduci kemalisti del Chp, sia gli ipernazionalisti del Mhp non gli concedono, anzi lo contrastano con vigore. L’appoggio alternativo rappresentato da un partito dato in crescita di percentuali come il filo kurdo Hdp, può però venire meno per le tensioni che stanno accompagnando negli ultimi due mesi le relazioni fra le parti, con la mancata risposta alle richieste di Öcalan e con la riavviata conflittualità nell’est turco, come mostra l’epidosio di Ağri, il più grave da un paio d’anni a questa parte.

Il co-leader di Hdp Demirtaş ha denunciato la violenza dell’esercito turco,  sostenendo com’essa fosse pianificata a tavolino e puntasse allo spargimento indiscriminato di sangue, visto che una delle vittime è un passante che non militava né nel suo partito né nel Pkk. La voce che gli ha fatto eco è stata direttamente quella presidenziale: “I soldati che conducono operazioni di sicurezza contro il Pkk sono i nostri figli. I militanti del Pkk lo sono altrettanto, non vogliamo che nel Paese continui spargimento di sangue”. Alle mani tese seguono le bacchettate rivolte all’Hdp che “con discorsi su democrazia e diritti cerca di speculare su simili condotte e fatti”. La pace, secondo Erdoğan, non si costruisce col killeraggio. Ma alla fine tutto resta uno slogan. Dietro lo scontro di sabato ci potrebbe essere la volontà di recuperare voti fra i nazionalisti duri e puri che odiano i kurdi e le problematiche che sollevno. In tal senso la coperta islamista è corta: se si guadagnano simpatie e consensi su quel fronte si compromette una possibile intesa – tutta da verificare – d’un voto kurdo al progetto presidenzialista. Sul fronte governativo c’è chi insinua (il deputato Akdoğan, impegnato nella delegazione che segue il processo di pace) che rilanciare la violenza e l’uso delle armi è una chiara forzatura al confronto. “Chi gioca col fuoco perderà”. Frase sibillina. Rivolta solo al Pkk?

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