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martedì 29 dicembre 2020

L’Afghanistan pacificato nel fuoco

I dieci giorni di fiamme e fuoco continuo che hanno investito Kabul con attentati, agguati, ventitre vittime e una settantina di feriti seminati in varie zone della capitale - usando Ied piazzati sotto le vetture bindate (come per il vice governatore Mohibi, morto assieme al suo segretario) e autobomba sistemate lungo il percorso di chi si voleva colpire - sono l’incofutabile realtà che nulla sta cambiando sotto il cielo afghano. L’agitata repressione che nell’ultima settimana ha condotto reparti speciali dell’esercito in 4000 abitazioni, di notte e di giorno, arrestando i sospetti su indicazioni dell’Intelligence locale, difficilmente riesce a mettere le mani sui responsabili delle azioni criminali. E’ una repressione di facciata, ritenuta indispensabile dal presidente Ghani e dal vice Saleh, mentre la gente sa e ribadisce che si tratta d’una messa in scena, incapace di perseguire i reali attentatori, i quali, da tempo, s’annidano anche fra le file di militari e polizia. Di fatto la stessa capitale, teoricamente l’ultimo baluardo difeso dai politici afghani filo occidentali, abbandonati al proprio dai colloquianti di Doha, è tornata al centro d’una competizione già vista. Quella fra talebani e Stato Islamico del Khorasan, un conflitto indiretto a suon di bombe e sangue per stabilire supremazia su territori e popolo.
L’amministrazione Trump, che per quasi due anni ha cavalcato la trattativa coi talebani, fra venti giorni dovrà cedere il comando. Ma gli Stati Uniti del presidente entrante appaiono come un attore tutt’altro che pimpante e in buona salute nella partita che dovrà proseguire. Se sarà ancora Khalilzad il maestro di cerimonie d’un tavolo impantanato lo vedremo a breve. Sicuramente non ci sarà più Pompeo, colui nel giorno seguente alla fatidica firma del 29 febbraio coi turbanti, aveva dichiarato ai media americani il “pieno accordo” su vari punti. I taliban intascavano: il riconoscimento politico, un rilascio di prigionieri, scadenze per il ritiro delle truppe Nato. Dovevano offrire in cambio il diniego a qualsiasi accoglienza per Al Qaeda, arnese combattente tuttora presente nel panorama jihadista, su cui gli studenti coranici hanno promesso lontananza e non assistenza, senza peraltro offrire riscontri. Del resto solo satelliti e droni possono verificare se in tante province gestite dai taliban possano esserci basi del nemico qaedista. Invece, ben altra e inquietante presenza s’aggira nelle valli e nei centri urbani dell’Afghanistan. Quella dissidenza talebana sfuggita allo stesso Akhundzada e alla Shura di Quetta, i khorasanisti dell’Isis locale. A questo punto, come constatato in più occasioni, il ‘gioco dell’oca afghano’ riparte dall’irrisolto della guerra strisciante e della violenza.  
 
Convitati di pietra più duraturi delle statue del Budda di Bamiyan, distrutte dai primi rozzi talebani. Che oggi, magari, non commetterebbero più simili errori, per non apparire truci. Infatti affermano di voler pianificare un proprio Emirato aperto all’istruzione per le stesse bambine e ragazze che nel loro primo governo non godevano di tale privilegio. Con quale controllo su scuole e madrase non viene rivelato, ma l’intento che li impegna da mesi è: pensare alla transizione governativa, visto che per la presa del potere non pare praticabile una soluzione militare. Tranne poi non abbandonare la via dell’eliminazione di politici e militari afghani dell’attuale governo. Eppure i diplomatici guidati in Qatar da Barader sono stati espliciti: nessun riconoscimento al sistema corrotto dei fantocci che hanno cogestito il governo con gli occupanti della Nato. Continuare a sparare sulle divise dell’Afghan National Army e su chi le veste non è un reato, anzi diventa il mezzo che accorcia la via per un proprio governo. Joe Biden e Kamala Harris sono avvertiti. Sta ai nuovi inquilini della Casa Bianca riformulare il piano americano nell’area. Avallando quanto iniziato dai predecessori (compreso Obama), sdoganando un governo dei soli turbanti e appoggiandoli, come Washington fece coi mujaheddin antisovietici, nel contrasto ai jihadisti del Khorasan. Oppure …

venerdì 18 dicembre 2020

Hend Nafea, esili egiziani

Dell’Egitto mi manca tutto scrive in uno dei suoi interventi sui social Hend Nafea. Lo dice da migliaia di chilometri, poiché è riparata negli Stati Uniti. Per i contatti che aveva frequentando l’Università americana del Cairo, riuscì a fuggire anni or sono. Dopo le drammatiche esperienze di fine 2012 quando l’esercito schiacciava le piazze ribelli coi suoi blindati, con uccisioni e arresti anche durante il “governo innovatore” della Brotherhood. C’è un’immagine che immortala il fermo di Hend, stretta fra gli uomini in mimetica che la trascinano via. Lei si volta, urla disperatamente, sa che l’aspetta il peggio. E il peggio arriva, al chiuso d’una caserma le praticano violenze che mai ha dimenticato. Tanto che una volta rilasciata, organizzò la fuga per sopravvivere. Prima di altri aveva compreso cosa sarebbe diventato il suo Paese e lei volava via. Era il periodo in cui questo era ancora possibile, sebbene non per tutti. I poveri, i senza speranze non avevano e non hanno possibilità. Poi i tempi sono diventati ancora più bui, le norme di Sisi hanno creato l’inferno alla Regeni, il tormento degli Zaki e il calvario di migliaia di reclusi di cui poco si parla, perché per alcuni di loro non ci sono famiglie combattive, contatti social, né ong di sostegno. C’è il buio ferreo delle Tora, ci sono i cavi elettrici sempre collegati che s’attaccano alla pelle, le lame che  sfregiano l’intimità.

Comunque Hend non è rimasta inerte. Pensa alla sua gente prigioniera nelle galere e a quella che vive nell’enorme prigione creata da Sisi e dai suoi scherani. Dopo la laurea conseguita negli States, ha fondato insieme ad altri la Human Rights Port e poi l’associazione Watan Bila Ta’azib, cioè “una nazione senza tortura”, speranza interna e internazionale cui non contribuiscono in tanti, soprattutto gli amici del golpista-torturatore Sisi che sono troppi ovunque. Hend, donna che non dimentica, segnala anche chi le violenze d’un tempo le ha inferte impunemente. E’ il caso di Hossam Koulana, il suo aguzzino. Ma costoro, i servi sanguinari dei regimi - in divisa e in borghese - che si prestano per denaro a obbedire offendendo, non vengono mai meno. Terminato il servizio e posti a riposo con pensione statale, possono riproporsi per ‘business privati’ assai di moda ormai da un decennio. Diventano consulenti, mercenari, spie dopo essere stati miliari, poliziotti, agenti dei Servizi. Accade in Egitto e altrove. Simili porcherie non hanno confini e vengono definite dalle Istituzioni “apparati della sicurezza”. Di regola gli ex vengono rimpiazzati nel ruolo più o meno di sicario da altri che, come loro, obbediscono, senza porsi problemi. Definiscono quel compito un “lavoro” e col quale servono lo Stato, trasformato in regime, e mantengono la famiglia. Eppure c’è chi come Hend, non ci sta. Non vuole dimenticare il passato e lo denuncia pubblicamente.

mercoledì 16 dicembre 2020

India, i treni del virus

La vicenda dei treni indiani del coronavirus potrebbe diventare un romanzo. O uno di quei colossal della produzione di Bollywood.  Modalità speciale come quei vagoni definiti ‘dei lavoratori’, ma non dissimile da altre pandemie storiche. Dall’antichissima “peste di Atene” narrata da Tucidite, frutto d’eccessiva stanzialità dentro le mura cittadine, alle pandemie migratorie, la “peste nera” giunta in Europa sui battelli genovesi che commerciavano col Medio Oriente. Fino alla tragica “spagnola” portata nel vecchio continente dalle truppe statunitensi dirette ai fronti della Grande guerra. Proprio i trasferimenti umani sono diventati nella scorsa primavera il maggior diffusore virale nella nazione-continente. Un passaggio da ovest a est, dalle coste del Mar Arabico a quelle del Golfo del Bengala. Dall’area industriale del Surat al distretto di Ganjam.  Quasi millecinquecento chilometri percorsi in treno da decine e decine di migliaia di lavoratori rimasti senza occupazione. Meccanici, autisti, cuochi, inservienti di ditte di pulizia, perfino lucidatori di diamanti, tutti in fuga da lavori perduti nella metropoli invasa dal Covid-19. Ai primi di maggio, quando si diffondeva la notizia della sospensione dei trasporti pubblici, ulteriore stretta governativa dopo chiusure già ritardatarie, una quantità spaventosa di lavoratori migranti o stagionali s’ammassa nella vecchia stazione ferroviaria di Surat. Nessuno di controlla, né organizza. Si accalcano in scompartimenti e corridoi, stipati, attaccati finanche ai predellini pur di non mollare il trasporto per le zone d’origine. L’ultimo rifugio dove poter, forse, mangiare. Poiché in quel distretto c’è sottosviluppo, ma l’attività agricola è presente da millenni, l’eventualità di riciclarsi fra i campi diventava più d’una speranza. Con quelle disperate speranze ha viaggiato anche l’infezione, raggiungendo le aree rurali orientali fino a quel momento libere da Sars-Cov2.

Nel mese seguente dall’arrivo dei treni del rientro, i casi di malattia sono diventati all’ordine del giorno, hanno raccontato ai giornalisti che si sono occupati della questione, alcuni sopravvissuti di villaggi del Ganjam. Né le autorità politiche locali, né quelle centrali hanno adottato filtri e profilassi, difficili nelle popolosissime metropoli, ma realizzabili in altri luoghi se si fosse evitata la fuga sfrenata e irrazionale scaturita dall’assenza di pianificazione. Un corto circuito verificatosi non a marzo, ma dopo due mesi di chiaro pericolo contagi. Ovviamente i grandi numeri della società indiana rappresentano un ostacolo non indifferente, però si è pensato unicamente al crollo economico d’imprese e attività, alla disoccupazione, alla stessa fame incombente per milioni di persone, mettendo comunque a repentaglio la salute di altri milioni dislocati in zone diverse. E’ questa l’accusa rivolta al governo, che invece difende con orgoglio i 4.600 “treni speciali” che hanno riportato nella terra d’origine oltre sei milioni di lavoratori. Se non tutti, molti diventati veicolo di trasmissione del virus. E dove i singoli dicevano: “Pur di morire di fame, muoio al mio paese”, non s’è opposta una linea di difesa collettiva dal soggettivismo, perché quel genere di morte è stata diffusa. Nello scontro parlamentare sollevato nelle ultime settimane dall’opposizione che chiedeva  un’inchiesta sulla vicenda dei treni, la maggioranza parlamentare, appannaggio del Bharatiya Janata Party, ha risposto bloccando qualsiasi azione. La tendenza è minimizzare. I dati ufficiali pongono il Paese molto al di sotto delle statistiche di contagio e morte registrate in altre nazioni, specie in Occidente. Per il coronavirus l’India di Modi segna: 10 milioni d’infettati e 145.000 morti. Ma occorre ricordare che per l’80% dei decessi indiani non s’indaga più di tanto, l’unica distinzione riguarda la morte cruenta o naturale.

domenica 13 dicembre 2020

Il Cairo, Egitto. “Cercano di uccidere l’anima in ogni modo”

E’ tarda sera. Mohamed è in casa, quartiere periferico del Cairo. Sente bussare alla porta, non apre. Gli squilli di campanello si fanno insistenti, seguiti da colpi sull'uscio. Mohamed tentenna poi davanti alle minacciose urla dei poliziotti, spalanca la soglia. Gli agenti gli sono addosso, gli rinfacciano una resistenza per aver ritardato l’apertura e gli intimano di seguirli. Appena sale su un’auto, non contrassegnata dall’effige poliziesca,  viene bendato e a sua insaputa si ritrova in una sede della National Security. Inizia un interrogatorio. Partendo dalle sue generalità, che probabilmente gli uomini dei Servizi già conoscono e che comunque Mohamed ribadisce, si sente dire: “Dimenticale. Ora sei un numero. Il numero 100”. “Da oggi sarai chiamato così. Ricorda: nessuno sa dove ti trovi, quando ti chiamiamo con questo numero, dovrai rispondere. L’interrogatorio termina qui. Dopo qualche ora Mohamed viene condotto davanti a quello che lui crede essere un ufficiale, comunque un capo. Gli agenti gli chiedono: “Dove sei?” e lui ingenuamente: “Alla National Security”. Viene subito colpito alla pancia e alla testa, quindi gli ripetono: “Non esiste una cosa chiamata National Security”. L’uomo annuisce e cerca di alleggerire la sua posizione sorridendo e poi ridendo. Un riso che aumenta e diventa isterico, mentre sullo sfondo una voce recita versi del Corano. Intravvede altri catturati, forse come lui. Le guardie non gli danno tregua. Lo portano in una stanza trascinandolo in malo modo, uno l’afferra per i capelli e tira. Mohamed si lamenta, giù botte. In seguito racconterà agli amici che il trattamento era durato ore - quattro, sei - non se n’è reso conto. Strappi sulla pelle, specie sul collo. Forse è svenuto, perché s’è ritrovato in una cella. Lì ha ricevuto del cibo. “Mangia!” gli ordinava chi glielo aveva portato. Lui obbediva, allungando il riso alla bocca con le mani. Era inverno e nella cella faceva freddo, Mohamed dormiva in terra, senza nient’altro che il vestito. Passati alcuni giorni, sentì gridare “Cento!!” e rispose. Venne condotto in un ufficio definito antiterrorismo. Era pieno di militari, le voci si sovrapponevano. Così iniziò un nuovo interrogatorio, mirato e più incalzante. Si parlava del lavoro giornalistico di Mohamed, “Faccio da me, sono un free lance”, gli agenti insistono: “Chi ti finanzia?” “Nessuno”. Colpi. Quindi comparvero cavi elettrici e partì una tortura spietata. Mohamed era provato, restò tramortito per qualche giorno in cella, non riesciva a mangiare. Gradualmente si riprese. Due agenti lo prelevarono nuovamente. Lui temeva per la vita. Tornò davanti al capo: “Da oggi sei il numero 80. Non dimenticarlo quando verremo a riprenderti”. Uscì presto dalla stanza che aveva temuto di tortura, una guardia gli porse degli abiti puliti indicandogli dove poteva fare una doccia. Rassettato Mohamed venne condotto in un altro ufficio, non gli riconsegnarono il denaro, tre cellulari e la macchina fotografica che gli erano stati sequestrati nell’abitazione, ma lui sperava solo di allontanarsi da quell'edificio. Ha raccontato agli amici: “Svicolando da quel posto ho camminato a lungo senza voltarmi. Vedevo passare le auto, ma non mi sono fermato, camminavo e basta”. “Sono stato molto fortunato, perché il trattamento è durato giorni - otto, forse dieci - il mio calcolo è vago perché non so quanto tempo ho dormito in quella stanza semioscura”. “Mi chiedo quando potranno venire a riprendermi. Cercano di uccidere l’anima delle persone in ogni modo”.

giovedì 10 dicembre 2020

I volti emaciati dei prigionieri di Sisi

L’ormai più noto recluso d’Egitto, Patrick Zaki la cui detenzione è entrata nel decimo mese, subendo a ogni comparizione davanti alla Corte un ulteriore rinvio di quarantacinque giorni, è stato fotografato in una di queste sadiche apparizioni. Udienze che magistrati e governo egiziani dispensano, cercando di affermare il proprio “senso dello Stato” e “attaccamento alla Giustizia”. Invece mostrano il più sprezzante abuso di potere, la manipolazione della legge, lo strangolamento del diritto. Ecco, in quei momenti sospesi fra la tensione e il cinismo di chi rimanda “l’imputato” a una prossima scadenza, qualche amico del ricercatore ostaggio d’una nazione matrigna, l’ha colto in un’istantanea. Smagrito, tirato, sofferente. Ben diverso dal paffuto volto disteso, apparso in un altro scatto fra i compagni di studio e di svago dell’università di Bologna un anno fa. Quando, pur nel degrado economico e morale in cui è caduto il suo Paese, il dottorando non pensava di diventarne l’ennesimo perseguitato politico. Di quelle immagini - fra prima e adesso - si possono cogliere migliaia di facce alterate dalla precarietà vissuta in cella, dalle botte prese e, quando va peggio, dalle torture ricevute. Sevizie che si cerca di celare, perché possono reiterarsi e diventare ancora più violente e umilianti. Osservate ora un altro carcerato, qualche anno in meno di Zaki, Abd al-Rahman Tariq, Moka per gli amici e gli attivisti con cui s’impegnava nelle ultime manifestazioni tenute al Cairo sette anni or sono. Per esse venne arrestato e condannato a sorveglianza poliziesca.

Per sei anni, ogni sera alle diciotto Moka doveva recarsi in un commissariato e restarci fino alle sei del mattino. Decisamente meglio che starsene ventiquattr’ore rinchiuso in una cella, umida, sporca, sovraffollata di Tora. Ma la sua vita era ferma. Non solo quella pubblica e sociale, rese impossibili agli oppositori del regime. La medesima esistenza quotidiana è rimasta appesa a un’ordinanza giudiziaria che nel settembre 2019 lo confinava in uno stato di detenzione pre-processuale. Le sembianze mutavano, il volto e l’umore messi a confronto con la condizione degli anni precedenti, svilivano non per un naturale invecchiamento, bensì per i travagli e gli abusi.  Il 10 marzo di quest’anno l’incubo pareva terminato. Ma il sorriso riapparso per cinquanta giorni ha iniziato a sfiorire a fine aprile. Un nuovo arresto per altre pendenze e conseguenti indagini. Il 21 settembre la Corte Criminale dispone una scarcerazione che, però, non viene eseguita. Moka resta detenuto nella struttura di Qasr el-Nil, in questo caso detenuto illegalmente rispetto a quanto predisposto dalla stessa Corte, tutto ciò fino allo scorso 3 dicembre. Quel giorno è scattato un nuovo provvedimento, 1056 del 2020 (gli addebiti seguono numerazioni disposte dai magistrati). L’accusa è simile alle precedenti: essersi unito a gruppi terroristi, attentando alla sicurezza nazionale. La faccia di Moka, come quella di migliaia di accusati indebitamente, continuerà a incupirsi, giorno dopo giorno.  

L’accanimento dei persecutori verso la gente d’Egitto coglie alla cieca le persone più innocue, altro che terroristi… Sherif  al-Roby nel 2011, aveva sperato, assieme a milioni di concittadini, in una svolta democratica della nazione. Oggi ha quarant’anni, una moglie e due figli. Fa il contadino nella splendida oasi si Fayum, circa un centinaio di chilometri a sud della capitale. Un luogo magico, noto sin dall’epoca dei faraoni. Venne fermato all’epoca dei moti di Tahrir, ma dopo non s’è più occupato di politica. Da tempo fa il contadino con un unico scopo: aiutare i bisognosi. Sia direttamente, regalando ai diseredati prodotti dei terra che coltiva, sia avviando giovani all’atavico e indispensabile lavoro agricolo. Chi lo conosce racconta che in piena pandemia s’industriava a pulire e disinfettare le strade di Fayum, abbandonate a se stesse, e soccorreva gli anziani in attesa davanti agli uffici amministrativi. Li faceva sedere, li intratteneva parlando e sorridendo e raccontava quest’impegno anche sui social. Evidentemente nel disumano Egitto dei militari, l’umanità non ha ragione d’esistere. Sherif è sparito nel nulla e i suoi amici temono per lui. Magari a breve ricomparirà in qualche cella. Lì dove il tempo si ferma e dove qualcuno, per malattie contratte o depressione, non ce la fa a sopravvivere. Anche queste sono sentenze capitali, come le pene inflitte periodicamente dalla Corte Suprema.

mercoledì 9 dicembre 2020

Sisi, il cliente-alleato dell’affarismo francese

A chi si stupisce davanti ai quasi abbracci al tempo del Covid fra presidenti, il democratico francese Macron e lo spietato egiziano Al Sisi, accolto in pompa magna all’Eliseo, occorre ricordare quali strade incrocino gli interessi e gli affari dei due Paesi. Mediterranei, come molti altri sulla sponda europea, africana e mediorientale, ma più d’altri proiettati in questo mare e nella prospiciente area. La geoeconomia e geopolitica di Parigi e del Cairo hanno trovato un “cordiale accordo”  su un piano che lega i due terreni, già normalmente assai intrecciati. Da qualche anno la Francia è diventata il primo esportatore d’armi dell’Unione Europea, ed è l’unica potenza continentale in grado di svilupparne autonomamente ogni tipologia, per combattimenti di terra, mare, aria con missili e anche testate nucleari. L’Egitto, servendosi degli organi di sicurezza (forze armate, polizia, servizi segreti), della magistratura, dello stesso Parlamento, che legifera la sospensione delle libertà personali per chi è sospettato di “trame contro lo Stato”, sta sperimentando un modello che può essere esportato in un’area da un decennio percorsa da ribellioni popolari. In più nel ridisegno della regione, l’uomo d’ordine incarnato dal presidente Al Sisi è stato investito del ruolo di alleato per Paesi amici del mondo arabo con velleità egemoniche sul vicino Medio Oriente, qual è l’Arabia Saudita. E di cliente-alleato cui riversare la “pregiata merce” di cui Parigi è divenuta esportatrice di spicco, per ricevere in cambio non solo denaro, ma favori geostrategici. Dieci anni fa le forniture d’armi acquistate dall’Egitto in terra francese ammontavano a 40 milioni di euro (molto più copioso era il pacchetto proveniente dagli Stati Uniti).

Dall’avvento di Sisi l’aria e il partenariato mercantile sono mutati. 800 milioni di euro sono stati spesi dal Cairo nel 2014, 1,2 miliardi nel 2015, nel 2016 1,3 sempre a vantaggio del mercato parigino che coi presidenti Sarkozy, Hollande e Macron ha fatto passi da gigante. Nel 2019 la cifra diventa straordinaria: 14 miliardi, spesi fra navi da guerra Mistral, fregate Fremm, cannoniere Gowind, aerei da combattimento Rafale, missili aria-aria Mica e missili da crociera Scalp. E poi armi leggere della ditta Manurhin e veicoli corazzati della Renault Defense per contrastare le manifestazioni di piazza. Quindi attrezzature di sorveglianza, prodotte da Idemia e Thales, per tenere d’occhio chiunque possa poi essere accusato di “attentato alla sicurezza nazionale e terrorismo” quali l’ong Iniziativa egiziana per i diritti personali e giovani come Patrick Zaki. La scalata armata del grande Paese arabo risponde in parte alle antiche manìe di grandezza della lobby che dal 1952 segna la vita del suo popolo, facendogli credere di difenderlo e ai nuovi equilibri che si prospettano, appunto, in un Mediterraneo e Medio Oriente da cui il “gendarme statunitense” si sta allontanando. Non un abbandono totale, una rimodulazione delle proprie strategie all’interno del quadro Nato e in collaborazione con attori locali. Fra costoro, a parte lo storico alleato israeliano, vengono assegnati ruoli centrali all’Arabia rimodernata dalla leadership di MbS, con gli annessi emirati del petrolio disponibili a collaborare (Emirati Arabi su tutti), e all’Egitto del presidente-generale. La Francia ha puntato sull’asse securitario nella Libia, da lei infuocata dieci anni or sono, con Al Sisi che poteva aiutare il signore della guerra Haftar.

Ma su quel fronte l’altro competitore agguerrito mediorientale, Erdoğan, sembra giocare una partita più favorevole, nei cieli, dove sguinzaglia i micidiali droni Bayraktar, e nel bacino orientale di cui rivendica diritti di scandaglio anche in partnership col governo libico a sostegno del progetto nazionalista denominato ‘Mavi vatan’. L’Egitto iper militarizzato ha dato fondo a quelle risorse che non investe per migliorare la condizione sociale della sua gente, finita per oltre la metà sotto la soglia di povertà, per la creazione dell’hub della sicurezza: la base aereo-navale Berenice, sul Mar Rosso, quasi al confine dell’infido Sudan. Gli è partner l’Arabia Saudita compagna di addestramenti navali con la supervisione francese (ecco che i coinvolgimenti riappaiono). Parigi vende navi e arei da guerra al Cairo e mira a usarlo come cane da guardia sull’altro mare che interessa lo stesso Paese arabo, dove s’incrociano sia gli affari energetici, con lo sfruttamento dei giacimenti di gas che riguardano due Stati falliti (Libia e Libano) su cui la politica estera francese vuole mettere le mani, sia una presenza prestante, e dunque armata, per quelle nazioni deboli (Grecia, Cipro) bisognose di protezione dalle ingerenze turche e russe. Poiché Riyadh e Il Cairo risultano alleati-competitori, perseguendo intenti comuni sulla sicurezza nelle travagliate zone del Mar Rosso e del Sinai, Parigi carezza, lusinga e aiuta il soggetto meno solvente, del quale è più semplice acquisire la disponibilità. E tutto procede in barba a qualsiasi ideale di libertà, di diritti personali e collettivi ad esempio. Che se dovesse venir sollecitato da chi su quel terreno osasse alzare la voce, un ipotetico governo italiano, con cui Sisi gestisce l’affare del metano di Zhor, potrebbe veder sostituire l’azienda italianissima impegnata nell’estrazione (Eni) con la concorrente Total e…  les jeux sont faits.

domenica 6 dicembre 2020

Khamenei, Guida Suprema in famiglia?

Sembrerebbe giunta l’ora, se non della dipartita, poiché del tumore alla prostata che affligge la Guida Suprema Ali Khamenei si discute da una dozzina d’anni (fu dato per spacciato anche dopo aver subìto un’operazione nel 2014, eppure il successore del Ruhollah Khomeini è ancora in vita coi suoi ottantuno anni), ma dell’abbandono della massima carica della Repubblica Islamica. Questa potrebbe venir dirottata al secondogenito Sayyid Mojtaba, cinquantunenne considerato ancor più conservatore del padre. Finora non c’è nulla di certo, però alle insistenti voci sul peggioramento delle condizioni di salute di Khamenei padre s’aggiungono note di cronisti iraniani lanciate su Twitter di un suo allontanamento dalla politica attiva. Momentaneo? Definitivo? A meno di misteri trascinati nel tempo, lo verremo a sapere. Con la difficile fase politica in corso non sarebbe opportuno tenere un segreto su un tema tanto  delicato. La Guida Suprema è la più alta carica prevista dalla Costituzione iraniana, viene eletta dall’Assemblea degli Esperti, ottantotto membri che durano otto anni, la cui candidatura viene vagliata dal Consiglio dei Guardiani. Gli Esperti possono addirittura revocare l’incarico della Guida, però quest’ultima ha il potere d'approvare la loro presenza all’interno di quell’organo di elezione. Un circolo vizioso di funzioni e controlli, contestato in alcuni periodi ma rimasto tuttora inalterato. Inoltre,  il Consiglio dei Guardiani è per metà nominato dalla stessa Guida Suprema.

Vedremo, dunque, se l’Assemblea degli Esperti si esprimerà per una sorta di “eredità” d’un ruolo di estremo potere nell’Islam sciita, dove il padre della Rivoluzione Khomeini insisté per introdurre il principio del velayat-e faqih che tanta importanza  riserva al clero. Nato anch’egli nella devotissima Mashaad, Mojtaba ha come tanti studiato teologia a Qom, ha combattuto giovanissimo nella guerra contro l’Iraq ed è stato anche responsabile di truppe basij, la milizia paramilitare che continua a controllare la vita politica interna al Paese. E’ stato vicino alla presidenza di Ahmadinejad, nella prima amministrazione (2005) sostenuto anche dalla Guida Suprema che, invece, gli voltò le spalle non tanto nella contestata fase dei brogli della rielezione del 2009, nelle quali Khamenei figlio gli rimase fedele, ma in un periodo seguente. Sotto la presidenza dell'ex sindaco di Teheran vennero alla luce sia la tendenza del cosiddetto “partito dei Pasdaran” di voler virare verso un laicismo politico, mettendo da parte lo strapotere degli ayatollah; ma soprattutto le implicazioni di Ahmadinejad, e del suo nume protettore Meshab Yazdi, di dare spazio al movimento religioso Hojatiye, che esalta il misticismo dell’attesa del cosiddetto “imam nascosto” mentre condanna il sistema finanziario dei capitali. L’oppositore di Ahmadinejad e candidato riformista Karroubi, accusò esplicitamente Khamenei junior di aver partecipato al “complotto” elettorale utilizzando un network attivato per l’occasione.

mercoledì 2 dicembre 2020

Egitto, il tempo scaduto che Conte dimentica

Non c’è più tempo aveva annunciato di recente con fare perentorio il primo ministro italiano Giuseppe Conte. Era un monito al presidente egiziano Al Sisi nel quale cercava, in extremis, un briciolo di collaborazione per l’azione penale che il capo della Procura di Roma Michele Prestipino s’appresta a inoltrare al Paese “amico” sull’altra sponda mediterranea. E’ in ballo l’accusa rivolta a cinque agenti degli apparati egiziani di Sicurezza su cui Al Sisi ha competenze e mostra - dopo quasi cinque anni dall’omicidio di Giulio Regeni - connivenze e palesi responsabilità. La maggiore è la copertura che il generale-golpista ha offerto a quel sistema criminale che ha pedinato, rapito, seviziato, assassinato il ricercatore friulano. Allo studioso è stato riservato il trattamento che il regime, creato da Sisi medesimo, applica a oppositori, giornalisti, avvocati dei diritti, attivisti di associazioni umanitarie, e a chiunque si muova per attuare solidarietà e vivere in libertà. Il generale Sabir Tareq, il maggiore Magdi Abdlaal Sharif, il colonnello Ather Kamal, il capitano Osan Helmy, il collaboratore Mahmoud Majem non riceveranno le notifiche dalla Procura romana semplicemente perché la nazione “amica” si rifiuta di collaborare e non fornisce i domicili degli incriminati. L’azione penale si svolgerà, dunque, nel nostro Paese con gli imputati contumaci per volere delle più alte autorità egiziane, a cominciare dal presidente della Repubblica. I contorni per una crisi diplomatica ci sono tutti, sebbene alcune nostre figure istituzionali, per primo il ministro degli Esteri Di Maio direttamente coinvolto col dicastero che dirige, si siano smarcati dalla vicenda e facciano finta di nulla. Oddio, Di Maio in questa losca storia è in ottima compagnìa.

Per anni gli esecutivi italiani hanno tentennato davanti al palese crimine. Quello di Renzi, con Paolo Gentiloni agli Esteri, quello di Gentiloni con Angelino Alfano nel ministero che guarda al mondo, il primo governo Conte con Moavero Milanesi appoggiato alla Farnesina chissà come e perché… Il tempo scorreva, non accadeva nulla. Del resto se si fa una carrellata di chi ha guidato il dicastero degli Esteri nell’ultimo ventennio prima dei citati colleghi (Ruggiero, Frattini, Fini, D’Alema, Terzi di Sant’Agata, Bonino) si ha il polso d’una politica abbandonata al più bieco servilismo di due padroni: la linea di sconquasso regionale imposta dagli Stati Uniti con le invasioni in Afghanistan e Iraq, alla quale abbiamo partecipato in base all’adesione alla Nato; le logiche economiche dettate da una geopolitica malata che riconduce all’affarismo, più o meno lecito, ogni mossa dettata dalla suprema ragion di stato. Di peggio c’è solo la presunta “sicurezza nazionale” con cui lo staff di Al Sisi imprigiona, tortura, uccide sedicenti terroristi che “attentano al futuro del Paese”. E’ ben noto che i rapporti fra Roma e Il Cairo siano dettati da interessi che passano per gli intrecci creati da un’azienda leader nel Pil delle due nazioni: l’Ente Nazionale Idrocarburi. E le scoperte di giacimenti di gas nel Mediterraneo orientale, con quello enorme chiamato Zhor di cui l’Eni che fu di Mattei detiene il 50%, influenzano le relazioni fra Italia ed Egitto. Ma quest’affare che vale 2.7 miliardi di piedi al cubo di estrazione quotidiana, un piede al cubo sono circa 28 litri e mezzo miliardi di metano, può condizionare e subordinare i princìpi morali con cui la nostra Repubblica difende la vita dei propri cittadini? In queste ore il governo Conte deve chiederselo e risponderne alla memoria di Regeni, ai suoi familiari, all’Italia che ama la verità e la giustizia.

martedì 1 dicembre 2020

India, i contadini assediano Modi

In trecentomila, forse più, con trattori, barbe e turbanti, attrezzi agricoli sostano bloccati da tre giorni alla periferia di New Delhi. La polizia li tiene ai margini dai palazzi del potere che vorrebbero raggiungere. Le forze dell’ordine non promettono nulla di buono se i contadini attueranno quel che minacciano: spazzare via coi mezzi cingolati le barriere metalliche con cui la loro protesta è stata fermata. Si sono sollevati da due mesi contro talune riforme dell’Esecutivo, le ritengono lesive del loro sostentamento. Invece a detta dei proponenti le nuove norme aprono “opportunità” per i produttori consentendo loro maggiore autonomia. I contadini individuano una deregolarizzazione dei prezzi delle merci che li sottoporrà alla speculazione delle grandi aziende. Così, settimana dopo settimana, il malcontento è cresciuto in un settore che impiega tuttora il 40% della forza lavoro nel Paese-continente, e sono sopraggiunte prima proteste locali, da giorni la marcia verso la capitale. Durante la stessa, partita dal Punjab e l’Haryana, le forze dell’ordine sono intervenute più volte, cercando di frenare e disperdere i manifestanti. 

Si è passati anche alle maniere forti con lacrimogeni e cannoni ad acqua per evitare che si formassero grandi accampamenti alle porte della capitale, che rimane comunque assediata nelle cinque arterie principali dove stazionano i protestatari. Il governo cittadino ha evitato di convogliarli su cinque stadi che, nelle intenzioni di chi proponeva questa soluzione, si sarebbero trasformati in enormi prigioni. Si è optato per le barriere metalliche che impediscono il prosieguo del cammino, mentre è in corso un tavolo di trattative fra due ministri e i rappresentanti dei rivoltosi. Talune richieste del mondo rurale sono state contestate da un certo ambientalismo, una di esse è la cancellazione della multa per reprimere la combustione delle stoppie dopo il raccolto. L’antichissima pratica vuole essere rimossa perché contribuisce ad aumentare i tassi d’inquinamento in ambienti, come la regione di Delhi, già sofferenti per la qualità dell’aria. Ma, accanto a questioni relative a costumi atavici, peraltro dibattuti da chi di rimando afferma che si multa quest’inquinamento e si tralasciano quello industriale e quello del traffico su gomma, pubblico e privato, resta soprattutto il fattore economico. In proiezione la legge soffocherebbe le entrate dei produttori piccoli e medi. Eppure il governo insiste: la protesta degli agricoltori sarebbe strumentalizzata dall’opposizione al partito di maggioranza (Bjp) e spezza una lancia per se stesso. Domani è attesa la resa dei conti, si vedrà se prevarrà un compromesso oppure lo staff di Modi tirerà dritto verso la liberalizzazione.

 

Le belle immagini qui riportate sono di Shome Basu

lunedì 30 novembre 2020

Iran, tre nodi per mesi caldissimi

Sull’emerita salma di Mohsen Fakhrizadeh, fino al giorno dell’attentato letale guida suprema del nucleare iraniano, pendono almeno tre nodi irrisolti del presente geopolitico della Repubblica Islamica. Il primo: lo squilibrato ‘equilibrio internazionale’, che ha già lacerato l’Iran con l’assassinio del generale Soleimani. Al suo omicidio Teheran ha deciso di non rispondere, le scaramucce su ambasciata e obiettivi minimi statunitensi in terra irachena sono state, appunto, schermaglie. Il secondo nodo si lega proprio alla linea da contrapporre alle sanguinarie azioni nemiche. Moderati e pragmatici sostengono una dignitosa lontananza dall’escalation della risposta ‘colpo su colpo’, e il presidente Rohani non intende applicare la norma decisa di recente da un Parlamento a maggioranza conservatrice: sospendere i controlli degli ispettori Aiea. Collegata a una ripresa dell’arricchimento dell’uranio fino alla soglia del 20% (finora non superava il 4,5%) in virtù della mancata cancellazione delle sanzioni economiche contro il Paese. I falchi meditano vendette non solo da proclamare, sebbene la voce di Qalibaf, presidente del Majles, che reclama una “reazione forte” dello Stato, e la tempestosa: “Piomberemo come tuoni sulla testa dei responsabili dell’omicidio di questo martire” annunciata da Hossein Dehghan, consigliere della Guida Suprema, appaiono più proclami utili alla propaganda che ciascuno inizia a farsi per le presidenziali di giugno, che minacce da attuare a breve. L’unica certezza è l’oggetto della minaccia: Israele, da più parti indicato come il regista e l’esecutore, tramite il suo super braccio armato del Mossad, dell’assassinio del noto professore.

Qui subentra il terzo nodo, di cui discutono gli analisti, ma anche la cittadinanza iraniana che, laica o clericale, riformista o ultraconservatrice, non ama ingerenze esterne, e soffrendo d’una carenza di sicurezza si chiede come si sia potuta materializzare quest’ulteriore operazione paramilitare sul suolo patrio. Una prima versione dell’assalto indicava un commando d’una dozzina di elementi dispiegati per far detonare l’autobomba, sparare sull’auto condotta dallo stesso Fakhrizadeh e sulle due di scorta. Alcuni cecchini erano in auto, altri su moto. Poi è stata diffusa anche una tesi funambolica: i colpi sarebbero partiti da un mitra robotico piazzato sull’auto civetta e azionato da chissà dove, un apparecchio che ha realizzato da terra la funzione dei droni nell’aria. Ipotesi avvincente, ma tutt’altro che provata e diffusa da un’agenzia prossima ai Pasdaran, la struttura nata dalla Rivoluzione Islamica e cresciuta con la cosiddetta “gioventù del fronte” che ha salvato la nazione dalle mire espansionistiche di Saddam Hussein. La milizia dei martiri sacrificatisi per la ‘creatura’ di Komeini, che nei decenni ha costituito l’asse portante del potere degli ayatollah sul versante della forza, venendone ripagata con lo strapotere economico di molte bonyad, fondazioni poste sotto il suo controllo, e con una lobby divenuta partito politico. Eppure quest’apparato tanto potente nella regione, col sostegno dato a nazioni e raggruppamenti alleati in Libano, Siria, Yemen, influente nella politica interna, non riesce a offrire garanzie di copertura del proprio territorio. La forza militare iraniana è indubbiamente cresciuta sul versante della tecnologia balistica di razzi e droni, però su software e cyber apparati, preparazione degli agenti sotto molteplici punti di vista, reti d’infiltrazione i Servizi statunitense e israeliano vantano cospicui margini di maggiore efficienza. 
E a un’esperienza di lunga data aggiungono risorse considerevoli, ad esempio quando occorre finanziare operazioni in territorio nemico. Un sabotaggio è stato registrato nello scorso luglio all’impianto di Fordow, struttura sotterranea di arricchimento dell’uranio sita a 32 km dalla città santa di Qom. E’ il secondo impianto controllato dall’Organizzazione iraniana per l’energia atomica insieme alla centrale di Natanz. In un reparto s’è sviluppato un incendio seguito a un’esplosione, un’azione rivendicata da sedicenti “Ghepardi per la patria”. I servizi interni hanno riconosciuto responsabilità derivanti da una pirateria informatica. Anni fa un libro, scritto da cronisti che avevano prossimità con agenti del Mossad, rivelava come quest’agenzia per le proprie azioni non si fidava di usare ‘esterni’, però grazie a copiosi fondi pagava delatori; acquisiva case sicure dove vivere per settimane o mesi mentre venivano preparati e attuati i piani di sabotaggio. Proprio in Iran, ai tempi della dinastia Pahlavi, l’Intelligence israeliana godeva di coperture della Savak, successivamente i referenti del Mossad possono essere diventati i Mujaheddin del popolo, un gruppo d’opposizione che virò verso il terrorismo. Nei decenni quest’organizzazione, sempre più distante dal suo programma politico laico, ha goduto dei finanziamenti della Cia nei vari uffici sparsi all’estero, iniziando dal presidio parigino della propria ispiratrice: Maryam Rajavi. Proprio gli Stati Uniti, protettori d’una storica loro base operativa in Iraq (camp Ashraf) ne hanno direzionato una parte nell’Albania americanizzata. Coinvolgendo l’Unhcr, alcune migliaia di miliziani sono finiti in una struttura vicina a Durazzo, Manëz. Mujaheddin o meno, chi aiuta i colpi d’Israele sa muoversi in terra iraniana e svergogna la “sicurezza” di Teheran. Fra i tre nodi presenti nell’irrisolto geopolitico e strategico iraniano questo risulta il più inquietante. 

 

 

sabato 28 novembre 2020

Israele a caccia del nucleare iraniano

Ci pensano gli amici del presidente uscente Donald Trump a tenere ben accesa la miccia della tensione internazionale con l’Iran. Uno di questi, l’immarcescibile Benjamin Netanyahu che la maggioranza del popolo israeliano con quattro mandati da premier ha elevato a proprio idolo, ben oltre il padre della patria Ben Gurion, lancia il suo delirio di violenza assassina ancor più in alto di quando iniziò a guidare Israele ventiquattro anni fa. L’ennesima esecuzione lungo la strada del paesino di Absard a est di Teheran, stavolta dell’eminente fisico nucleare Mohsen Fakhrizadeh, segue di due settimane la rivelazione dell'attentato contro il numero due di Qaeda, Amhed Abdullah esplicitamente liquidato dal Mossad il 7 agosto scorso. In questo caso probabilmente l’Intelligence di Tel Aviv non rivendicherà l’azione, ma il dito puntato su di lei e sul governo israeliano, viene direttamente dal presidente Rohani. Parole durissime del moderato della politica iraniana che nella prossima primavera chiuderà il mandato: “Ancora una volta le mani del diavolo dell’arroganza globale si sono macchiate col sangue dell’usurpatore mercenario regime sionista. Il martirio di Mohsen Fakhrizadeh non rallenterà il nostro successo”. Perciò se l’amministrazione Biden vorrà riaprire un dialogo sul “nucleare iraniano” si troverà di fronte una determinazione pari a quella dell’epoca Ahmadinejad quando, sempre l’alleato israeliano, di fisici impegnati sul piano nucleare di Teheran ne eliminava una quaterna alla volta.

In più c’è lo spirito di vendetta che ribolle fra i pasdaran, gli ayatollah intransigenti e la stessa Guida Suprema Khamenei, che sul tragico episodio finora è rimasto silente. Del resto il sessantatrenne fisico assassinato era un loro uomo. Aveva militato fra le Guardie della Rivoluzione ed era un famoso fisico, esperto nel settore missilistico. Aveva ricoperto la carica di responsabile dell’Organismo d’innovazione e ricerca della difesa. Per i suoi nemici un obiettivo sensibilissimo, tant’è che proprio Netanyahu due anni addietro parlando sul tema del nucleare iraniano aveva segnalato lo scienziato nemico come un “nome da ricordare”. Nella sua personale agenda una condanna capitale. Il ministro degli Esteri di Teheran Zarif, ha puntualizzato il precedente indicando in Israele il mandante, sebbene non si sia pronunciato sugli esecutori del colpo. Nonostante il lavoro dello staff di Fakhrizadeh possa rappresentare un incubo per Tel Aviv, la rivalsa difficilmente sarà diretta. Anche alla gravissima perdita del comandante Suleimani a inizio del 2020 non è seguita alcuna operazione. Certo, in quella circostanza era direttamente coinvolta la Casa Bianca, Trump in persona si felicitò per la scomparsa d’un “terrorista”. Ma seppure a Teheran il cosiddetto ‘partito della forza’ prema, è più probabile che una ritorsione verso Israele si giochi fra le componenti alleate nel Medioriente a lui prossimo: Libano e Siria. Invece potrà crescere l’influenza dei duri, pasdaran e ayatollah intransigenti, nella politica interna del Paese che nella primavera prossima affronterà le elezioni presidenziali.