Sull’emerita salma di Mohsen Fakhrizadeh, fino al giorno
dell’attentato letale guida suprema del nucleare iraniano, pendono almeno tre
nodi irrisolti del presente geopolitico della Repubblica Islamica. Il primo: lo
squilibrato ‘equilibrio internazionale’, che ha già lacerato l’Iran con l’assassinio
del generale Soleimani. Al suo omicidio Teheran ha deciso di non rispondere, le
scaramucce su ambasciata e obiettivi minimi statunitensi in terra irachena sono
state, appunto, schermaglie. Il secondo nodo si lega proprio alla linea da contrapporre
alle sanguinarie azioni nemiche. Moderati e pragmatici sostengono una dignitosa
lontananza dall’escalation della risposta ‘colpo su colpo’, e il presidente
Rohani non intende applicare la norma decisa di recente da un Parlamento a
maggioranza conservatrice: sospendere i controlli degli ispettori Aiea. Collegata
a una ripresa dell’arricchimento dell’uranio fino alla soglia del 20% (finora
non superava il 4,5%) in virtù della mancata cancellazione delle sanzioni
economiche contro il Paese. I falchi meditano vendette non solo da proclamare, sebbene
la voce di Qalibaf, presidente del Majles, che reclama una “reazione forte” dello Stato, e la
tempestosa: “Piomberemo come tuoni sulla
testa dei responsabili dell’omicidio di questo martire” annunciata da
Hossein Dehghan, consigliere della Guida Suprema, appaiono più proclami utili alla
propaganda che ciascuno inizia a farsi per le presidenziali di giugno, che
minacce da attuare a breve. L’unica certezza è l’oggetto della minaccia:
Israele, da più parti indicato come il regista e l’esecutore, tramite il suo
super braccio armato del Mossad, dell’assassinio del noto professore.
Qui subentra il terzo nodo, di cui discutono gli analisti, ma anche
la cittadinanza iraniana che, laica o clericale, riformista o
ultraconservatrice, non ama ingerenze esterne, e soffrendo d’una carenza di
sicurezza si chiede come si sia potuta materializzare quest’ulteriore operazione
paramilitare sul suolo patrio. Una prima versione dell’assalto indicava un
commando d’una dozzina di elementi dispiegati per far detonare l’autobomba, sparare
sull’auto condotta dallo stesso Fakhrizadeh e sulle due di scorta. Alcuni
cecchini erano in auto, altri su moto. Poi è stata diffusa anche una tesi
funambolica: i colpi sarebbero partiti da un mitra robotico piazzato sull’auto
civetta e azionato da chissà dove, un apparecchio che ha realizzato da terra la
funzione dei droni nell’aria. Ipotesi avvincente, ma tutt’altro che provata e diffusa
da un’agenzia prossima ai Pasdaran, la struttura nata dalla Rivoluzione
Islamica e cresciuta con la cosiddetta “gioventù del fronte” che ha salvato la nazione
dalle mire espansionistiche di Saddam Hussein. La milizia dei martiri
sacrificatisi per la ‘creatura’ di Komeini, che nei decenni ha costituito
l’asse portante del potere degli ayatollah sul versante della forza, venendone
ripagata con lo strapotere economico di molte bonyad, fondazioni poste sotto il suo controllo, e con una lobby divenuta
partito politico. Eppure quest’apparato tanto potente nella regione, col
sostegno dato a nazioni e raggruppamenti alleati in Libano, Siria, Yemen,
influente nella politica interna, non riesce a offrire garanzie di copertura
del proprio territorio. La forza militare iraniana è indubbiamente cresciuta sul
versante della tecnologia balistica di razzi e droni, però su software e cyber apparati,
preparazione degli agenti sotto molteplici punti di vista, reti d’infiltrazione
i Servizi statunitense e israeliano vantano cospicui margini di maggiore
efficienza.
E a un’esperienza di lunga data aggiungono risorse
considerevoli, ad esempio quando occorre finanziare operazioni in territorio
nemico. Un sabotaggio è stato registrato nello scorso luglio all’impianto di
Fordow, struttura sotterranea di arricchimento dell’uranio sita a 32 km dalla
città santa di Qom. E’ il secondo impianto controllato dall’Organizzazione
iraniana per l’energia atomica insieme alla centrale di Natanz. In un reparto s’è
sviluppato un incendio seguito a un’esplosione, un’azione rivendicata da
sedicenti “Ghepardi per la patria”. I servizi interni hanno riconosciuto
responsabilità derivanti da una pirateria informatica. Anni fa un libro,
scritto da cronisti che avevano prossimità con agenti del Mossad, rivelava come
quest’agenzia per le proprie azioni non si fidava di usare ‘esterni’, però
grazie a copiosi fondi pagava delatori; acquisiva case sicure dove vivere per
settimane o mesi mentre venivano preparati e attuati i piani di sabotaggio. Proprio
in Iran, ai tempi della dinastia Pahlavi, l’Intelligence israeliana godeva di coperture
della Savak, successivamente i referenti del Mossad possono essere diventati i
Mujaheddin del popolo, un gruppo d’opposizione che virò verso il terrorismo. Nei
decenni quest’organizzazione, sempre più distante dal suo programma politico
laico, ha goduto dei finanziamenti della Cia nei vari uffici sparsi all’estero,
iniziando dal presidio parigino della propria ispiratrice: Maryam Rajavi.
Proprio gli Stati Uniti, protettori d’una storica loro base operativa in Iraq
(camp Ashraf) ne hanno direzionato una parte nell’Albania americanizzata. Coinvolgendo
l’Unhcr, alcune migliaia di miliziani sono finiti in una struttura vicina a
Durazzo, Manëz. Mujaheddin o meno, chi aiuta i colpi d’Israele sa muoversi in
terra iraniana e svergogna la “sicurezza” di Teheran. Fra i tre nodi presenti
nell’irrisolto geopolitico e strategico iraniano questo risulta il più
inquietante.
Nessun commento:
Posta un commento