“Non c’è più tempo” aveva annunciato di
recente con fare perentorio il primo ministro italiano Giuseppe Conte. Era un
monito al presidente egiziano Al Sisi nel quale cercava, in extremis, un
briciolo di collaborazione per l’azione penale che il capo della Procura di
Roma Michele Prestipino s’appresta a inoltrare al Paese “amico” sull’altra
sponda mediterranea. E’ in ballo l’accusa rivolta a cinque agenti degli
apparati egiziani di Sicurezza su cui Al Sisi ha competenze e mostra - dopo
quasi cinque anni dall’omicidio di Giulio Regeni - connivenze e palesi
responsabilità. La maggiore è la copertura che il generale-golpista ha offerto
a quel sistema criminale che ha pedinato, rapito, seviziato, assassinato il ricercatore
friulano. Allo studioso è stato riservato il trattamento che il regime, creato
da Sisi medesimo, applica a oppositori, giornalisti, avvocati dei diritti, attivisti di
associazioni umanitarie, e a chiunque si muova per attuare solidarietà e vivere
in libertà. Il generale Sabir Tareq, il maggiore Magdi Abdlaal Sharif, il
colonnello Ather Kamal, il capitano Osan Helmy, il collaboratore Mahmoud Majem
non riceveranno le notifiche dalla Procura romana semplicemente perché la
nazione “amica” si rifiuta di collaborare e non fornisce i domicili degli
incriminati. L’azione penale si svolgerà, dunque, nel nostro Paese con gli
imputati contumaci per volere delle più alte autorità egiziane, a cominciare
dal presidente della Repubblica. I contorni per una crisi diplomatica ci sono
tutti, sebbene alcune nostre figure istituzionali, per primo il ministro degli
Esteri Di Maio direttamente coinvolto col dicastero che dirige, si siano smarcati
dalla vicenda e facciano finta di nulla. Oddio, Di Maio in questa losca storia
è in ottima compagnìa.
Per anni gli esecutivi italiani hanno tentennato
davanti al palese crimine. Quello di Renzi, con Paolo Gentiloni agli
Esteri, quello di Gentiloni con Angelino Alfano nel ministero che guarda al
mondo, il primo governo Conte con Moavero Milanesi appoggiato alla Farnesina
chissà come e perché… Il tempo scorreva, non accadeva nulla. Del resto se si fa
una carrellata di chi ha guidato il dicastero degli Esteri nell’ultimo
ventennio prima dei citati colleghi (Ruggiero, Frattini, Fini, D’Alema, Terzi
di Sant’Agata, Bonino) si ha il polso d’una politica abbandonata al più bieco
servilismo di due padroni: la linea di sconquasso regionale imposta dagli Stati
Uniti con le invasioni in Afghanistan e Iraq, alla quale abbiamo partecipato in
base all’adesione alla Nato; le logiche economiche dettate da una geopolitica
malata che riconduce all’affarismo, più o meno lecito, ogni mossa dettata dalla
suprema ragion di stato. Di peggio c’è solo la presunta “sicurezza nazionale”
con cui lo staff di Al Sisi imprigiona, tortura, uccide sedicenti terroristi
che “attentano al futuro del Paese”. E’ ben noto che i rapporti fra Roma e Il
Cairo siano dettati da interessi che passano per gli intrecci creati da
un’azienda leader nel Pil delle due nazioni: l’Ente Nazionale Idrocarburi. E le
scoperte di giacimenti di gas nel Mediterraneo orientale, con quello enorme
chiamato Zhor di cui l’Eni che fu di Mattei detiene il 50%, influenzano le
relazioni fra Italia ed Egitto. Ma quest’affare che vale 2.7 miliardi di piedi
al cubo di estrazione quotidiana, un piede al cubo sono circa 28 litri e mezzo miliardi di
metano, può condizionare e subordinare i princìpi morali con cui la nostra Repubblica
difende la vita dei propri cittadini? In queste ore il governo Conte deve
chiederselo e risponderne alla memoria di Regeni, ai suoi familiari, all’Italia
che ama la verità e la giustizia.
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