Chi spara e uccide oggi a Kabul e lo rivendica con decisione
e orgoglio è lo Stato Islamico del Levante. Il suo commando ha lasciato
straziati a terra e sui banchi di studio ventidue ragazzi colpevoli di volersi
laureare, per provare a uscire dalla spirale dell’ignoranza e del fanatismo da
cui le milizie del terrore reclutano soprattutto i kamikaze. E mentre lo stesso
terrore percorre le strade d’Europa - dove altre armi da guerra imbracciate da miliziani
in bianco infondono paura seminando morte - il jihadismo d’Oriente sancisce in
Afghanistan la ripresa della sfida interna coi titolati taliban. Questi,
impegnati da oltre un anno nella defatigante trattativa prima con gli States,
ora col governo di Kabul, patteggiavano e garantivano una tregua che di fatto non
è mai esistita. Ma, un conto è violarla di propria iniziativa per condizionare
gli interlocutori a Doha, altro diventa subirla da avversari interni (un pezzo
del jihadismo dell’Isil proviene dalla dissidenza talebana) che li mettono in
difficoltà sul controllo del territorio. In realtà la sicurezza della capitale sarebbe
compito dell’esercito afghano. Ma la ridda di azioni sanguinarie succedutesi
negli anni in centro città, dimostrano che quei reparti super armati non sono
in grado di tutelare nulla. Così Kabul è da tempo terra di tutti e di nessuno.
Certo, gli uomini di governo restano blindati nelle proprie roccaforti, si
spostano blindati sugli Apache statunitensi e quando, raramente, viaggiano, più
all’estero che in altre province del Paese lo fanno volando da una base aerea
Usa a un’altra. Ne esistono undici nelle trentasei province e nessun accordo ha
deciso di smantellarle. Secondo un copione consolidato e notissimo, vari
attentati anche ad autorità o al cospetto di esse, com’è accaduto nell’autunno
scorso, hanno mostrato terroristi inseriti nei reparti militari fedeli al
regime.
Questo regime liquefatto che gli stessi talebani incontrano per opportunismo diplomatico, poiché
devono concordare con esso le cariche politiche che andranno ad acquisire, diventa
l’obiettivo dello Stato Islamico del Khorasan che lancia assalti al sistema
attuale per colpire anche la presunta stabilità dell’immediato futuro. Alcuni
particolari relativi all’attacco possono suggerire ulteriori letture.
Innanzitutto il già citato obiettivo studentesco, appena due settimane fa era
stato colpito un istituto frequentato dalla comunità hazara, anche in quest’occasione
c’è di mezzo un riferimento allo sciismo o meglio alla nazione dove questo
culto impera: l’Iran. Nella struttura accademica si stava inaugurando un’iniziativa
incentrata sui libri iraniani. E l’Iran, confinante ingombrante che come il
Pakistan mira a condizionare le vicende afghane, è odiatissimo dal
fondamentalismo salafita ispiratore della “umma jihadista”. Eppure una voce di
peso nei palazzi di Kabul smonta questa versione. Il vicepresidente Saleh,
scampato a diversi attentati, l’ultimo nello scorso settembre, sostiene che
dietro l’agguato all’Università ci siano i talebani. Dice di ricavarne la prova
dal tipo di armi utilizzate dai miliziani, tipiche dei turbanti. L’afferma
dall’alto della sua competenza in materia di sicurezza. Poi ci sarebbe una
frase tracciata sul muro in una classe, che recita “lunga vita ai talebani”. Dal sito Tolo-news gli risponde piccato il portavoce degli studenti
coranici, sostenendo come Saleh lavori solo per diffamare i taliban.
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