Quando Erdoğan sperimentava i primi anni di potere
d’un rilanciato schieramento islamico con la sigla dell’Akp, l’ammiraglio Cem
Gürdeniz parlava di “Mavi vatan” che
significa “Patria blu” e riporta il
sentimento turco al momento della grande punizione, quella sancita dal trattato
di Sèvres dell’agosto 1920. Allora l’Impero Ottomano, sconfitto nel primo
conflitto mondiale, divenne solo un pezzo di Anatolia, perdendo a ovest le aree
di Edirne e Smirne, a est territori a vantaggio dell’Armenia, d’un ipotetico
stato kurdo peraltro mai nato, e zone meridionali dove francesi e britannici
stabilivano il proprio protettorato. E’ vero che tra anni dopo, a porre fine al
sanguinoso conflitto greco-turco, la nazione kemalista si ritrovò padrona dei
territori occidentali e orientali, mentre a sud nascevano gli Stati siriano e
iracheno, ma da quel momento l’influenza sul ‘mare bianco’ d’ottomana memoria
diventava solo un ricordo storico, sia per la perdita definitiva dei territori
dell’Africa mediterranea orientale (Tunisia alla Francia, Tripolitania,
Cirenaica, Dodecanneso all’Italia) sia per la politica di Atatürk concentrata
sulla ricostruzione interna.
Nel 2006 Gürdeniz, che non nasconde il suo viscerale nazionalismo,
era direttore del Piano di divisione del quartier generale delle forze navali
turche, e rispolverava la nostalgica proiezione marina della Turchia un tempo
imperiale. La visione del presente geopolitico fra l’allora premier Erdoğan e
gli apparati della difesa appariva assai diversa. E’ di quel periodo il
presunto “piano Sledgehammer”, un progetto di golpe per abbattere il governo
che non fu mai effettuato, e che nel 2010 condusse alla sbarra il Gotha di
esercito, marina, aviazione di uno dei più forti membri della Nato. Dopo
ventuno mesi d’indagini la Corte criminale di Istanbul produsse 325 condanne su
365 graduati turchi indagati. Le pene che dovevano essere esemplari scesero a fasi di reclusione, sebbene in qualche caso lunghe vent’anni. Per altri
ufficiali anziani si passò alla collocazione a riposo. Il dibattimento del
processo fu un vero scontro fra i legali di parte governativa e i difensori dei
militari. Quest’ultimi sostennero che molte registrazioni portate come prove
erano manipolate, ma di fatto la lobby kemalista in seno alle Forze Armate uscì
con le ossa rotte ed Erdoğan potè rimpiazzare un gran numero di ufficiali con
nuovi elementi compiacenti alla linea politica dell’Akp. Fra coloro che si collocarono
a riposo, o vennero ‘invogliati’ a farlo dopo la dura diatriba giudiziaria, con tanto di carcerazione, c’era
anche l’ammiraglio Gürdeniz.
Lui studiò, scrisse e si riciclò brillantemente quale editorialista
sulle testate Aydınlık Dailiy e Yacht
Magazine, quindi divenne direttore del Forum marittimo dell’Università Koç
di Istanbul. Le sue posizioni patriottico-marinare non sono cambiate, lo
conferma un’intervista concessa al quotidiano Hürriyet Daily poco più d’un anno fa (cfr. https://www.hurriyetdailynews.com/blue-homeland-shows-turkey-has-become-a-maritime-power-141624),
ma è l’uomo del destino turco, nel corso di molteplici mandati e nuove cariche,
ad aver adattato i suoi piani e i volti alleati. Fra il 2010 e 2012 al fianco
di Erdoğan c’era il ministro degli Esteri Davutoğlu, il professore
dell’Università di Beykent che la rivista Foreign
Policy definiva “il cervello che sta
dietro al risveglio globale della Turchia”. Un pezzo forte della
geopolitica di Ankara dell’epoca teorizzava la linea “zero problemi coi
vicini”. Invece fra questioni interne, guerra civile siriana su più fronti,
presenza in Libia via terra e via mare, più le recenti diatribe sulle Zone
economiche esclusive nell’Egeo i problemi presi di petto dal presidente turco
sono decine. La sua diplomazia continua a cercare il gesto estremo e ora mutua
anche la “Patria blu” dall’ammiraglio ultranazionalista. In essa Erdoğan colloca interessi
commerciali e supremazia politica, con l’ausilio di navi scandaglio e fregate
d’assalto, più radar, missili, droni da vendere o usare, anche solo per dissuadere.
Pur di occupare spazi vitali. Anche quelli su cui l'Occidente mostra disinteresse.
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