Fra lo studente
universitario di Kabul e lo studente coranico (talib) che l’uccide c’è il
comune denominatore dell’età: sono entrambi giovani. Seguono corsi differenti.
Quelli morti stamane, mentre s’apprestavano ad entrare nelle aule, cercano
nella cultura un’arma di riscatto in un Paese condannato all’instabilità eterna
proprio da coloro che si vantano di parlare di pace. Quelli che indossano il
turbante della tradizione affermano di difendere l’Afghanistan ammazzandone i
fratelli. Accade da decenni e in questi mesi di più. Proprio in relazione ai
colloqui di pace gli attentati contro i civili hanno avuto un picco, animati
dai talebani dissidenti del Khorasan che seguono la via dello Stato Islamico e dalla
Shura possibilista a un governo (il proprio), autrice anch’essa di azioni sanguinose per
mostrare la sua forza e determinatezza, per dire a interlocutori e concorrenti:
gli irriducibili siamo noi. Per tutto questo stamane son morti prima due poi
altri sei studenti, che risultavano feriti gravi dopo l’esplosione di due Improvised explosive device, i famigerati Ied, che hanno fatto
saltare in aria due automobili e causato la carneficina. Si contano altri trenta
feriti, alcuni in gravi condizioni. Giorni addietro, chiudendo a Doha l’ennesimo
inconcludente faccia a faccia fra le parti statunitense e talebana, con in più la
presenza di alcuni sedicenti membri della società civile, ogni dichiarante
s’impegnava a: ridurre a ‘zero’ le vittime civili, garantire alla popolazione
sicurezza pubblica (sic!) e beni necessari, compresi quell’acqua e quel cibo
che in alcune zone mancano, e poi educazione civile e religiosa. Eppure l’unica
religione che continua a essere osannata è quella della morte; non del
martirio, ricercato o subìto, ma del supplizio inflitto a innocenti, fuori da
qualsiasi logica o strategia. Son queste le giornate che si susseguono a Kabul
e nelle trentaquattro province afghane, mentre gli strateghi degli accordi
fingono di accordarsi su qualcosa.
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