Analisti e politici turchi, quest’ultimi vincenti e perdenti, si
chiedono se il risultato del voto amministrativo di domenica prospetti un
cambiamento che disegna un Paese diverso da quello conosciuto negli ultimi
diciassette anni. La valutazione, pur potendo seguire percorsi analitici
articolati, non evidenzia grandi novità. Temi centrali delle elezioni erano:
sicurezza ed economia. Attorno a essi
s’è sviluppato l’esito della consultazione. La sicurezza, costante di un quadriennio
vissuto pericolosamente, è diventato da tempo il leit-motiv della politica erdoğaniana. Ma sembra non fare più presa
come nel luglio del tentato golpe. Allora erano state le piazze urbane proprio di
Istanbul e Ankara a salvare Erdoğan che rischiava di finire nelle mani dei
militari ribelli. I cittadini che lo difesero, affrontando i carri armati,
pensavano di sostenere un sistema Paese in cui si riconoscevano. Forse, però,
difendevano soprattutto quella condizione economica che ne aveva sollevato vita
e portafoglio, producendo una spinta addirittura maggiore della modernizzazione
liberista lanciata dopo la dittatura degli anni Ottanta. Parliamo della
cittadinanza elettrice, non di chi s’era trasformato in attivista del partito
che della Giustizia e del Progresso fa tuttora un’icona.
Pensiamo che costoro siano ancora fedeli al grande capo, in città
come in campagna. Ma nei grandi centri urbani, ben cinque: Istanbul, Ankara,
Izmir, Adana, Antalya, circa 30 milioni di turchi sugli 82 che oggi conta il
Paese, dicono d’esser stanchi dell’aggressione verbale ad avversari trattati
come nemici e cercano un’esistenza pacifica. Ovviamente con un’inflazione al
20% e una disoccupazione anch’essa a due cifre, c’è poco da tranquillizzare
l’animo, pur votando per il partito repubblicano che al di là della moderazione
dei toni non mostra grandi idee. Però il segnale è lanciato. Un segnale chiarissimo
ai governanti: non saranno le moschee in costruzione a placare l’ansia della
gente, che va pure a pregare, ma chiede stabilità. Economica oltre che civile. Dunque,
il voto del ceto medio urbano all’Akp non era un’adesione per fede politica e
religiosa, bensì per prospettive di miglioramento sociale. Tutto sommato più
ideologico resta il consenso anatolico, dove per tradizione l’Islam tiene
tuttora unita la Ümmet. Eppure questo
collante può non esser sufficiente a un governo che non presta orecchio alle
preoccupazioni popolari.
Se il trend economico negativo dovesse proseguire, le elezioni
anticipate - rispetto alla data prevista del 2023 - diventerebbero inevitabili perché
sospinte dal malcontento sociale. Cui il sistema deve scegliere se rispondere con la stessa dura
mano repressiva utilizzata negli ultimi anni contro i nemici della nazione e
della popolazione turca, additati come “terroristi”: i fetüllaçi di Gülen, i kurdi d’ogni sponda, dal Pkk all’Hdp, l’ultrasinistra
in genere. I politici vicini al presidente hanno cercato di rintuzzare
discorsivamente le considerazioni dell’opposizione vincitrice che insinua
l’idea d’una prossima spallata al regime, una mossa giudicata ormai possibile.
Gli erdoğaniani ricordano come il partito col 44% dei consensi conservi
saldamente la prima posizione fra gli elettori e che l’alleanza col Mhp
conferisce al modello presidenzialista la maggioranza assoluta. Però chi guarda
avanti non può nascondersi dietro certezze pregresse, vivendo di ricordi pur se
clamorosamente vincenti. Nell’Akp c’è chi reclama spazi meritocratici al posto
di carriere frutto di schieramenti e familismi, un riferimento diretto al
ministro delle Finanze, quel Berat Albayrak genero di Erdoğan. E sono attesi
rimpasti ministeriali.
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