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giovedì 4 aprile 2019

Turchia, i segnali del voto


Analisti e politici turchi, quest’ultimi vincenti e perdenti, si chiedono se il risultato del voto amministrativo di domenica prospetti un cambiamento che disegna un Paese diverso da quello conosciuto negli ultimi diciassette anni. La valutazione, pur potendo seguire percorsi analitici articolati, non evidenzia grandi novità. Temi centrali delle elezioni erano: sicurezza ed economia.  Attorno a essi s’è sviluppato l’esito della consultazione. La sicurezza, costante di un quadriennio vissuto pericolosamente, è diventato da tempo il leit-motiv della politica erdoğaniana. Ma sembra non fare più presa come nel luglio del tentato golpe. Allora erano state le piazze urbane proprio di Istanbul e Ankara a salvare Erdoğan che rischiava di finire nelle mani dei militari ribelli. I cittadini che lo difesero, affrontando i carri armati, pensavano di sostenere un sistema Paese in cui si riconoscevano. Forse, però, difendevano soprattutto quella condizione economica che ne aveva sollevato vita e portafoglio, producendo una spinta addirittura maggiore della modernizzazione liberista lanciata dopo la dittatura degli anni Ottanta. Parliamo della cittadinanza elettrice, non di chi s’era trasformato in attivista del partito che della Giustizia e del Progresso fa tuttora  un’icona.
Pensiamo che costoro siano ancora fedeli al grande capo, in città come in campagna. Ma nei grandi centri urbani, ben cinque: Istanbul, Ankara, Izmir, Adana, Antalya, circa 30 milioni di turchi sugli 82 che oggi conta il Paese, dicono d’esser stanchi dell’aggressione verbale ad avversari trattati come nemici e cercano un’esistenza pacifica. Ovviamente con un’inflazione al 20% e una disoccupazione anch’essa a due cifre, c’è poco da tranquillizzare l’animo, pur votando per il partito repubblicano che al di là della moderazione dei toni non mostra grandi idee. Però il segnale è lanciato. Un segnale chiarissimo ai governanti: non saranno le moschee in costruzione a placare l’ansia della gente, che va pure a pregare, ma chiede stabilità. Economica oltre che civile. Dunque, il voto del ceto medio urbano all’Akp non era un’adesione per fede politica e religiosa, bensì per prospettive di miglioramento sociale. Tutto sommato più ideologico resta il consenso anatolico, dove per tradizione l’Islam tiene tuttora unita la Ümmet. Eppure questo collante può non esser sufficiente a un governo che non presta orecchio alle preoccupazioni popolari.
Se il trend economico negativo dovesse proseguire, le elezioni anticipate - rispetto alla data prevista del 2023 - diventerebbero inevitabili perché sospinte dal malcontento sociale. Cui il sistema  deve scegliere se rispondere con la stessa dura mano repressiva utilizzata negli ultimi anni contro i nemici della nazione e della popolazione turca, additati come “terroristi”: i fetüllaçi di Gülen, i kurdi d’ogni sponda, dal Pkk all’Hdp, l’ultrasinistra in genere. I politici vicini al presidente hanno cercato di rintuzzare discorsivamente le considerazioni dell’opposizione vincitrice che insinua l’idea d’una prossima spallata al regime, una mossa giudicata ormai possibile. Gli erdoğaniani ricordano come il partito col 44% dei consensi conservi saldamente la prima posizione fra gli elettori e che l’alleanza col Mhp conferisce al modello presidenzialista la maggioranza assoluta. Però chi guarda avanti non può nascondersi dietro certezze pregresse, vivendo di ricordi pur se clamorosamente vincenti. Nell’Akp c’è chi reclama spazi meritocratici al posto di carriere frutto di schieramenti e familismi, un riferimento diretto al ministro delle Finanze, quel Berat Albayrak genero di Erdoğan. E sono attesi rimpasti ministeriali. 


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