Un tentativo di sblocco della situazione,
seppure tutto ipotetico e denso d’incognite, coinvolge la politica estera
statunitense e riguarderebbe un intervento presso l’insidioso alleato
pakistano. Nell’area in questione Islamabad gioca una partita simile a quella
destabilizzante compiuta dalla monarchia di Ryiad, offrendo un supporto
nient’affatto occulto al jihadismo locale. In realtà qualche differenza fra i
due comportamenti esiste. Finora i sauditi non hanno mostrato azioni repressive
verso i miliziani dell’Isis (ad accezione della coalizione di facciata lanciata
tempo addietro), mentre l’esercito pakistano in certe fasi lancia retate e
pesanti azioni di controguerriglia verso i quei combattenti autori di attentati
contro militari e civili (si ricordano casi della scuola di Peshawar e del
parco giochi di Lahore). Trump dovrebbe chiedere al premier Sharif di cessare
il doppiogioco oltre confine, ma i pakistani sono assieme agli iraniani
interessati all’indebolimento di qualsivoglia conduzione autodeterminata di Kabul
sul fronte politico, economico, militare, ideologico.
Si tratta di strade già percorse negli anni
Ottanta, all’epoca del generale Zia-ul-Haq, accettato dagli Usa con tutta la
carica di islamizzazione nazionale che si portò dietro. Oltre alle enormi
concessioni di Casa Bianca e Pentagono, che hanno riempito di aiuti economici e
testate nucleari una nazione fra le più prolifiche al mondo (il Pakistan conta
attualmente 200 milioni di abitanti, con
un incremento vertiginoso negli ultimi 25 anni, visto che nel 1947, alla
nascita della nazione, la popolazione ammontava a 32 milioni), la politica
statunitense non si è preoccupata affatto delle trame di Islamabad, invogliando
e istruendo gli agenti della locale Intelligence (Isi) tramite mezzi e uomini
della Cia. Del resto vari analisti sostengono che uscire da un simile
tracciato, che oggettivamente si è complicato nel tempo, diventa assai
rischioso per gli equilibri geopolitici: tagliare supporti agli organismi
locali della forza potrebbe far precipitare situazioni già precarie. E la
posizione finora mantenuta Oltreoceano è quella di puntellare tale precarietà.
I governanti di Kabul, tenuti totalmente in vita dagli Usa, devono accettare
questa linea.
Non a caso, i passi compiuti con
l’accantonamento di Karzai e la scelta del più malleabile Ghani (uomo allevato presso
la Banca Mondiale) ha prodotto finora la quadratura d’un cerchio che, certo, necessita
di continue risistemazioni. Uno dei fattori che ha incrinato il disegno della
strategia dell’uscita è l’inaffidabilità delle strutture militari. Nell’Afghan National Security Forces i
comandi e gli ufficiali si comportano come i signori della guerra sul piano
corruttivo e di affarismo personale, senza mostrare però audacia ed efficienza
militare. I disgraziati che vestono la divisa provengono dai ceti più derelitti:
sono coloro che non riescono neppure a raggranellare piccole somme per tentare
l’avventura migratoria verso l’ignoto. E taciamo della possibilità
d’infiltrazione che maglie così lasse hanno prodotto in questi anni. L’esercito
afghano è il flop maggiore che la linea di ‘messa in sicurezza del territorio
occupato’ ha prodotto negli ultimi cinque anni.
L’abbiamo evidenziato: l’ingordigia dei signori
della guerra produce da molto tempo comportamenti corruttivi e finanche capi
talebani mostrano tendenze a lucrare sul caos (i proventi del commercio di
oppio ed eroina continuano a risultare vantaggiosissimi), però il morale fra le
milizie talib è superiore ad altri contendenti e questo li rende vivi e
competitivi. Non al punto di riprendere il potere, ma di essere attori finora
non cancellabili. Allora la mossa di Trump su questo scacchiere strategico può
prevedere: l’opzione del riarmo anche consistente; quella di tenere le stesse
truppe; infine addirittura diminuirle. Nicholson propende per la prima, già
attuata anni addietro e pure fallita. Come fallì il successivo negoziato
avviato nel 2009. Com’è facile costatare, sotto il sole afghano non c’è nulla
di nuovo. Si guarda una situazione finita in un punto morto, si vorrebbe
rompere lo stallo, ma l’unica prospettiva presa in esame è quella del disturbo
dell’altro contendente per impedirgli di vincere. Così il conflitto, lungo 38
anni con fasi aperte o latenti, ma sempre corrosive per vite umane e futuro,
resta la cappa che soffoca l’aria afghana.
(fine)
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