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venerdì 26 maggio 2017

Afghanistan, i generali di Trump e la strategia del riarmo

Mister Trump avrà pure apprezzato la medaglia con l’ulivo della pace consegnatagli da papa Francesco, ma anche questo è mera maschera diplomatica, più della discussa mano tesa all’avvenente consorte Melania. Che conoscendo con chi ha (ahilei) a che fare, la respinge. Perciò oltre ai 350 miliardi di armamenti da rifilare all’alleato saudita, reso satollo e capace di proseguire repressioni verso l’opposizione interna ed esterna alle petromonarchie e guerre per procura grazie all’amato e nutrito jihadismo, gli Stati Uniti stanno rivisitando piani strategico-militari su vari scenari mondiali. Quello consolidatissimo dell’Afghanistan, giunto al 16° anno d’occupazione, rientra fra i rivedibili. L’attuale programma Resolute Support, che teneva in loco 10.000 marines (cui bisogna aggiungere i contractor in divisa, solitamente non presentati nel conto totale), subirà appunto ritocchi. Il generale Nicholson, responsabile delle truppe Nato in quel Paese, sogna di rischierare migliaia di soldati sullo scenario. Né lui e neppure Pentagono e Casa Bianca spendono una minima riflessione su un orizzonte totalmente fallimentare per le truppe occidentali che lì si sono cimentate, perdendo uomini e faccia. L’industria cardine per l’economia statunitense, che è quella bellica, necessita di ambasciatori dell’utilizzo di quel “ben di Dio” simile alla Moab di cui il presidente e i suoi generali si fan vanto.  E con l’ausilio degli apprendisti stregoni della geopolitica ci si orienta a serbare i fronti aperti, anche davanti alla palese inefficacia della propria strategia.
L’unico vantaggio americano sull’ambìto suolo afghano, che copre un’area centrale e strategica per il controllo del Grande Medioriente, sono le basi aeree da cui partono gli attacchi con caccia e droni a insorgenti, talebani, popolazione civile e a nuovi nemici. Ciò nonostante Nicholson e colleghi  vogliono di più: bramano di tornare a uno scontro frontale più ampio, aumentando di migliaia di unità i reparti antiguerriglia. Nel 2014, al momento dell’attuazione dell’exit strategy, si sosteneva che con due anni fitti d’addestramento e sostegno a esercito e polizia locali, sarebbero rimasti nel Paese solo un migliaio di marines per presidiare la propria ambasciata a Kabul. Già l’anno seguente quel piano di evacuazione veniva rallentato,  a metà del 2016 i militari Usa risultavano fondamentali non tanto contro i residui qaedisti in quelle aree, ma contro l’oltranzismo talebano. Non solo per il cosiddetto controterrorismo, bensì per “effetti strategici”. Così li definiva lo staff di Obama che, pur parlando di strategia del ritiro, colpiva duro da ogni angolazione. Dal cielo piovevano missili su insorgenti, villaggi e anche sugli ospedali di “Medici senza frontiera”, il ricordo della strage di fine settembre 2015 a Kunduz (decine di vittime fra i sanitari) è ancora vivo. Azioni criminose che anziché allentare l’offensiva di terra talebana l’hanno rinvigorita grazie agli inviti dei turbanti ai giovani di difendere il Paese dall’occupazione della morte. Demagogia? populismo? Dipende dai punti di vista. Gli effetti sono deleteri per la sicurezza di ogni provincia e devastati per lo sterminio di civili, colpiti da entrambi i contendenti. Secondo recenti dati forniti dal governo Ghani il proprio esercito e gli alleati Nato controllano il 60% dei distretti afghani dove vive il 65% della popolazione.
I talib ne controllano l’11% col 34% di popolazione, e un 29% di distretti col 25% di popolazione risultano contesi. Basta fare le somme per costatare che i conti non tornano. Non solo quelli aritmetici sballati riguardo agli abitanti, ma gli stessi calcoli politico-strategici. Quanta propaganda ci sia in simili notizie è risaputo: ogni regime edulcora a suo favore i dati. Il popolo afghano è difficilmente calcolabile causa decessi, fughe, migrazioni interne ed esterne, e non è facile immaginare che la frazione della popolazione che vive nelle aree controllate dai governativi fugga anch’essa, come fanno gli abitanti delle zone sotto giurisdizione talebana. Sia perché comunque è costretta a vivere in aree sottoposte a fuoco e coprifuoco, sia perché l’oppressione e il fondamentalismo non sono solo da una parte, visto che il presidente Ghani ha accolto a braccia aperte un fanatico del jihad come Hekmatyar. Attualmente l’impegno combattente di terra degli Usa è scarso rispetto a standard passati, gran parte degli scontri armati vedono contrapposti afghani arruolati  nell’esercito o nelle file dei ribelli. Da parte sua l’insorgenza, che pure colpisce dove vuole, non riesce a tenere a lungo certi territori conquistati. Si è creata sue roccaforti, ma mostra il fiato corto per una conquista totale e una tenuta, come fece nel 1996. Quel che appare da oltre un anno è un guerriglia che si trascina senza che nessun contendente riesca a prevalere. Per questo l’ipotesi trattative era risbocciata a Washington e Kabul.

(continua)

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