Mister Trump avrà pure
apprezzato la medaglia con l’ulivo della pace consegnatagli da papa Francesco,
ma anche questo è mera maschera diplomatica, più della discussa mano tesa
all’avvenente consorte Melania. Che conoscendo con chi ha (ahilei) a che fare,
la respinge. Perciò oltre ai 350 miliardi di armamenti da rifilare all’alleato
saudita, reso satollo e capace di proseguire repressioni verso l’opposizione
interna ed esterna alle petromonarchie e guerre per procura grazie all’amato e
nutrito jihadismo, gli Stati Uniti stanno rivisitando piani strategico-militari
su vari scenari mondiali. Quello consolidatissimo dell’Afghanistan, giunto al
16° anno d’occupazione, rientra fra i rivedibili. L’attuale programma Resolute Support, che teneva in loco 10.000
marines (cui bisogna aggiungere i contractor in divisa, solitamente non presentati
nel conto totale), subirà appunto ritocchi. Il generale Nicholson, responsabile
delle truppe Nato in quel Paese, sogna di rischierare migliaia di soldati sullo
scenario. Né lui e neppure Pentagono e Casa Bianca spendono una minima
riflessione su un orizzonte totalmente fallimentare per le truppe occidentali
che lì si sono cimentate, perdendo uomini e faccia. L’industria cardine per
l’economia statunitense, che è quella bellica, necessita di ambasciatori
dell’utilizzo di quel “ben di Dio” simile alla Moab di cui il presidente e i
suoi generali si fan vanto. E con
l’ausilio degli apprendisti stregoni della geopolitica ci si orienta a serbare
i fronti aperti, anche davanti alla palese inefficacia della propria strategia.
L’unico vantaggio americano
sull’ambìto suolo afghano, che copre un’area centrale e strategica per il
controllo del Grande Medioriente, sono le basi aeree da cui partono gli
attacchi con caccia e droni a insorgenti, talebani, popolazione civile e a
nuovi nemici. Ciò nonostante Nicholson e colleghi vogliono di più: bramano di tornare a uno
scontro frontale più ampio, aumentando di migliaia di unità i reparti
antiguerriglia. Nel 2014, al momento dell’attuazione dell’exit strategy, si
sosteneva che con due anni fitti d’addestramento e sostegno a esercito e
polizia locali, sarebbero rimasti nel Paese solo un migliaio di marines per
presidiare la propria ambasciata a Kabul. Già l’anno seguente quel piano di
evacuazione veniva rallentato, a metà
del 2016 i militari Usa risultavano fondamentali non tanto contro i residui
qaedisti in quelle aree, ma contro l’oltranzismo talebano. Non solo per il cosiddetto
controterrorismo, bensì per “effetti strategici”. Così li definiva lo staff di
Obama che, pur parlando di strategia del ritiro, colpiva duro da ogni
angolazione. Dal cielo piovevano missili su insorgenti, villaggi e anche sugli
ospedali di “Medici senza frontiera”, il ricordo della strage di fine settembre
2015 a Kunduz (decine di vittime fra i sanitari) è ancora vivo. Azioni criminose
che anziché allentare l’offensiva di terra talebana l’hanno rinvigorita grazie agli
inviti dei turbanti ai giovani di difendere il Paese dall’occupazione della
morte. Demagogia? populismo? Dipende dai punti di vista. Gli effetti sono
deleteri per la sicurezza di ogni provincia e devastati per lo sterminio di
civili, colpiti da entrambi i contendenti. Secondo recenti dati forniti dal
governo Ghani il proprio esercito e gli alleati Nato controllano il 60% dei
distretti afghani dove vive il 65% della popolazione.
I talib ne controllano
l’11% col 34% di popolazione, e un 29% di distretti col 25% di popolazione
risultano contesi. Basta fare le somme per costatare che i conti non tornano.
Non solo quelli aritmetici sballati riguardo agli abitanti, ma gli stessi
calcoli politico-strategici. Quanta propaganda ci sia in simili notizie è
risaputo: ogni regime edulcora a suo favore i dati. Il popolo afghano è difficilmente
calcolabile causa decessi, fughe, migrazioni interne ed esterne, e non è facile
immaginare che la frazione della popolazione che vive nelle aree controllate
dai governativi fugga anch’essa, come fanno gli abitanti delle zone sotto
giurisdizione talebana. Sia perché comunque è costretta a vivere in aree
sottoposte a fuoco e coprifuoco, sia perché l’oppressione e il fondamentalismo
non sono solo da una parte, visto che il presidente Ghani ha accolto a braccia
aperte un fanatico del jihad come Hekmatyar. Attualmente l’impegno combattente di
terra degli Usa è scarso rispetto a standard passati, gran parte degli scontri
armati vedono contrapposti afghani arruolati nell’esercito o nelle file dei ribelli. Da
parte sua l’insorgenza, che pure colpisce dove vuole, non riesce a tenere a
lungo certi territori conquistati. Si è creata sue roccaforti, ma mostra il
fiato corto per una conquista totale e una tenuta, come fece nel 1996. Quel che
appare da oltre un anno è un guerriglia che si trascina senza che nessun
contendente riesca a prevalere. Per questo l’ipotesi trattative era risbocciata
a Washington e Kabul.
(continua)
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