I
numeri sono, e non da oggi, una delle ossessioni di Recep Tayyip Erdoğan. Le
elezioni della riscossa dello scorso novembre, che hanno riconsegnato al
partito della Giustizia e dello Sviluppo la sicurezza di governo, non
garantiscono lo strapotere all’uomo del comando. Nell’attuale parlamento turco
l’Akp ha 316 seggi, gli altri partiti rispettivamente 232, divisi fra i 133 dei
repubblicani (un onorevole è uscito dal gruppo), i 59 del partito Democratico
del popolo, i 40 dei nazionalisti. 367 è la quota di deputati che consentirebbe
un cambio automatico della Costituzione, 330 porterebbe al Referendum popolare.
Se il primo obiettivo sembra difficile da raggiungere, il secondo appare a
portata di voto, di scambio o comunque d’intesa. Ma i consensi trasversali, che
la proposta potrebbe ricevere dal fronte conservatore, presuppone
contropartite. Queste possono venire dal decreto che il governo, attualmente in
attesa d’un nuovo premier, potrebbe varare. Si tratta della cancellazione dell’immunità
parlamentare agli eletti sospettati di fiancheggiamento del terrorismo. E’ il
tema su cui il sultano e l’ex fedele Davutoğlu si sono scontrati, andrebbe a
colpire alcuni deputati del partito filo kurdo e rinfocolerebbe la polemica con
l’Unione Europea che contesta alla Turchia libere interpretazioni sulla legge
antiterrorismo trasformatasi in liberticida.
Con tale
normativa la lampadina dell’Akp brillerebbe dell’aiuto proveniente da qualche
deputato dell’Mhp. Eppure non è così semplice, i conti potrebbero egualmente
non tornare visto che, pur guadagnando dall’ultradestra, il partito di
maggioranza può sempre perdere nella casa madre voti degli uomini vicini all’ex
premier. Davutoğlu smentisce. Lui sta compiendo le consultazioni di prammatica
per trovare il suo sostituto alla guida del partito e dell’esecutivo, mostra
verso il presidente il bonario aplomb di sempre, nelle recenti principesche nozze
di Summeye, la figlia minore del sultano, s’è fatto fotografare sorridente col
padre della sposa. Ma quest’ultimo, per prevenire sorprese e voti mancanti,
penserebbe di fare acquisti sul fronte nazionalista. Anche nel quartier
generale del Mhp c’è maretta. Si prospetta un pensionamento di Bahçeli, che secondo
alcune giovani leve avrebbe fatto il suo tempo. E soprattutto non avrebbe trovato
proposte aggreganti nei confronti d’un elettorato conservatore che guarda al
partito di maggioranza, sì islamico, ma sempre più orientato verso uno stato
forte, l’elemento rimpianto dai turchi amanti di divise, galera, divieti e
divisioni. E comunque affascinati dal proprio mito di potenza. Questa è la
corda che furbescamente Erdoğan continua a pizzicare pur ammantandosi di tutto
l’islamismo possibile.
Del
resto se la grandezza nazionale deve misurarsi col passato, il fascino
imperiale ottomano resta un’icona straordinaria anche per chi è nato sotto il
più ferreo kemalismo. Nelle trasformazioni internazionali quelle della politica
interna seguono d’appresso e il presidente che vuole tutto è ampiamente realista.
Dopo l’uscita di scena di Davutoğlu l’unica incognita resta la partita dei
profughi giocata con la Ue. Finora a tutto vantaggio di Ankara, che s’era
accordata al rialzo (6 miliardi di euro da incamerare per l’accoglienza sul suo
territorio), ottenendo anche la libera circolazione dei concittadini nei Paesi
europei in cambio del benestare di Bruxelles sulle leggi antiterrorismo. Qui
c’è l’intoppo che riguarda il conflitto coi kurdi, quello armato e quello
politico, visto che i deputati Hdp che il presidente vorrebbe portare davanti
ai magistrati sarebbero perseguìti per un articolo del codice penale (217)
rivolto a “chi incita alla disobbedienza”.
La questione coinvolge il concetto di democrazia e libertà d’opinione, contestato
dai deputati possibili bersagli del decreto. Loro accusano il partito di
maggioranza di “colpo di mano”. Eppure Erdoğan sa quanto sia pesante l’arma
dei rifugiati, perciò continuerà a giocare d’azzardo, come sta facendo da tre
anni dentro e fuori i confini meridionali.
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