Sei
corpi appesi, col cappio al collo. E’ accaduto giorni addietro nel supercarcere
di Pol-e-Charkhi, Afghanistan. I giustiziati erano sei. Quattro talebani: due
miliziani ordinari, che piazzando Ied avevano fatto fuori poliziotti nei
distretti di Paktika e Paghman, un altro condannato per l’attacco all’ospedale
militare Daud Khan e anche lì i colpiti erano militari e agenti di guardia, il quarto
era più illustre, tal Hamidullah, accusato dell’omicidio del presidente
Rabbani, storico signore della guerra e fondatore del Jamiat-e-Islami. Impiccati
anche un membro di al-Qaeda, killer del deputato Laghmani e di altre 14
persone, e un appartenente alla rete di Haqqani. Quest’ultimo per colpire il
rappresentante della locale Commissione dei diritti umani, ne aveva sterminato
l’intera famiglia. Insomma si trattava di pluriomicidi, sebbene secondo le
proprie logiche ciascuno ricopriva un ruolo combattente nel piano
dell’insorgenza lanciata contro l’occupazione occidentale e i collaboratori
governativi. Ovviamente talebani e altri fondamentalisti hanno un disegno
politico che usa il Jihad come mezzo per destabilizzare il Paese e prenderne la
guida. La scelta di Ghani, che per due anni ha tenuto un basso profilo,
rappresenta un cambio di tendenza rispetto al passato e anche alla sua linea.
Nei
due mandati presidenziali di Karzai le esecuzioni capitali erano rare, quelle rivolte
a miliziani d’ogni appartenenza quasi inesistenti. Unica eccezione quella di
Abdullah Shah, crudele assassino ma anche testimone ingombrante d’intrighi di
potere e per questo eliminato. La politica ufficiale aveva attuato una
moratoria sino alla totale riforma del sistema giudiziario, ma soprattutto non
voleva inimicarsi i signori della guerra, che in fatto di crimini non erano
secondi agli studenti coranici armati. Una posizione mantenuta dallo stesso
Ghani che anzi, come il predecessore, cercava di rilanciare colloqui col
nemico. Ma la risposta sono stati attacchi ininterrotti, in autunno e in
inverno, un segnale di esplicito rifiuto d’ogni tregua. Un mese fa è giunto il
pesantissimo attentato di Kabul con 68 vittime e 350 feriti e il governo ha
scelto la linea dura. Il presidente, riunendo i due rami del Parlamento, ha parlato
di motivazioni di sicurezza (e forse di stessa sopravvivenza) che imponevano
posizione drastiche. Naufragata quella trattativa cercata assieme all’omologo
pakistano Sharif, ma di fatto respinta dal nuovo leader dei talib afghani
Mansour, non si poteva concedere nulla alle proposte di amnistia per chi era
accusato e condannato per atti terroristici. Anzi coloro che s’erano macchiati
di stragi dovevano finire sul patibolo. Così è stato.
Tutto
ciò nonostante un contrasto in seno agli organi giudiziari, dove c’era chi non
voleva inasprire il clima evitando di applicare la pena capitale e coloro che
si schieravano con la linea della fermezza proposta dal presidente. Ghani ha
promesso adeguata protezione dei magistrati contro le possibili vendette dei
turbanti. Un portavoce governativo sottolinea come la scelta della condanna per impiccagione
ha seguìto la normativa vigente, comprese le indicazioni della Shari’a, assicurando
comunque agli imputati la completa legalità dell’azione che si avvale di tre
gradi di giudizio. La leadership afghana prova così a conquistare un’autorità ormai
inesistente incutendo terrore ai seminatori di terrore. L’obiettivo primario è
la manovalanza talebana, quella costituita dalle adesioni dell’ultim’ora
compiute da soggetti che s’aggregano al network di Mansour magari disertando da
esercito e polizia. Bisogna vedere se la stretta rimarrà circoscritta ai
politici o s’allargherà ai condannati per crimini comuni, anche efferati come
l’omicidio, ma tutti afferenti alla
sfera d’una dilagante malavita. Intanto i talebani, che per tenere testa al
confronto a distanza con l’Isis hanno sensibilmente aumentato i propri
interventi d’informazione e propaganda, in un ampio comunicato affermano che “condanne a morte e sevizie inferte ai
combattenti sono barbarie, l’attuale governo corrotto non ha alcuna autorità e
simili scelte non porteranno né pace né sicurezza”. La guerra continua.
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