Mes Aynak sta benone, porta magnificamente i
suoi 5000 anni. L’unico problema è l’habitat che per il futuro può creargli gravi
problemi. Ha attorno una delle maggiori miniere di rame dell’Afghanistan finita
nelle mani del potente China Metallurgical Group. Dal 2007, prima grazie al
presidente Karzai ora al suo sostituto Ghani, la corporation ha ricevuto un’autorizzazione
trentennale per lo sfruttamento minerario di quel sito, nella provincia di
Logar, distante 40 km sud-est da Kabul. Che nelle vicinanze ci sia anche
un’antichissima area archeologica nella quale lavorano e studiano alcune équipe
di ricercatori viene considerato dalle autorità afghane e, ovviamente, dai
manager della compagnìa un elemento insignificante. Infatti sono state aperte
delle cave già sul 10% dell’area Studiosi ritengono che la prosecuzione degli
scavi (con fini archeologici) potrà, o potrebbe, riscrivere la storia del Paese
e la stessa storia del buddismo. Ma si tratta d’una lotta contro il tempo e
contro il business poiché le vestigia di antichi monasteri rischiano la
scomparsa definiva. Il gruppo archeologico deve altresì guardarsi dalle
incursioni dei taliban, propensi a far fare anche alle statue di Buddha
strappate al sottosuolo la fine cruenta riservata ai colossi di Bamiyan nel
2001.
Gli archeologi impegnati in loco, che hanno
lanciato un grido d’allarme attraverso una campagna di sostegno e la realizzazione
d’un documentario (http://www.savingmesaynak.com/about). Ricordano che la zona
interessata è vastissima, 500.000 metri quadrati, e per valore artistico è
comparabile alla nostra Pompei e a Machu Picchu. Lì si trovano mura, caverne,
grotte, templi con statue di Buddha; una rarissima raffigurante Siddharta è
emersa come per magìa. La parte conosciuta del sito è ancora minima, pari al
10% dell’intera estensione, come si trattasse della punta d’un immenso iceberg
sommerso, tutto da esplorare. Il gruppo d’indagine esalta la straordinarietà
del luogo capace di produrre scoperte sensazionali attorno a quel melting pot di culture del continente
asiatico e della sponda mediorientale, irrorato dai continui contatti e scambi
che avvenivano tramite i pellegrini. Se lo sfruttamento minerario dovesse
proseguire - e finora nulla è stato fatto dalle autorità afghane interessate
solo a incamerare yuan, né da strutture internazionali d’ogni genere, dalle
Nazioni Unite all’Unesco - di ogni cosa conosciuta e sconosciuta rimarrebbe
solo la testimonianza del citato documentario. Uno scempio degno dell’Isis, basato stavolta sul fondamentalismo degli
affari.
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