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giovedì 2 luglio 2015

Egitto, Fratellanza bersaglio fisso

Il presidente Sisi dichiara che l’Egitto è in guerra e questo gli basta per far proseguire gli spari. Ieri, mentre infuriava la battaglia contro gli jihadisti nel Sinai, un commando della polizia è penetrato in un suburbio del Cairo e perquisendo appartamenti sospetti ha aperto il fuoco sugli occupanti. Tredici i morti, tutti membri della Fratellanza Musulmana, compreso l’ex deputato Nasser al-Hafy. La giustificazione per l’azione estrema sta nella pericolosità dei soggetti, sospettati di preparare attentati, simili a quello che ha tolto la vita al procuratore generale Barakat. Secondo il ministero dell’Interno nel gruppo c’erano diversi latitanti, alcuni dei quali condannati a morte in contumacia nei mesi scorsi. Nell’appartamento-covo sarebbero state trovate armi, documenti e 5.300 dollari. Una tivù pro Fratellanza ancora abilitata a trasmettere (Mekameleen TV) ha invece denunciato l’intervento poliziesco mirato a uccidere a sangue freddo, alcuni testimoni hanno intravisto un’incursione diretta con sparatoria a sangue freddo, senza alcuna identificazione degli inquilini. Un comunicato della Confraternita denuncia il clima di terrore seminato dagli agenti in mimetica nera: “... veri crimini di cui deve rispondere Sisi, responsabile di una gang oppressiva. Dobbiamo difendere le nostre case, famiglie e vite”.
Il richiamo a una protesta, ridotta a testimonianza, è già per domani. Una data scolpita nella memoria islamica: quella del golpe con cui il generale Sisi pose agli arresti il presidente Mursi, regolarmente eletto un anno prima nel confronto al cardiopalma con Shafiq. Dal 3 luglio 2013 Mursi, poi via via il Gotha della Brotherhood (la guida spirituale Badie, il leader affarista conservatore Al-Shater, il riformista Habibi) vennero arrestati. Seguiti nelle carceri di massima sicurezza da centinaia di membri di alto livello e migliaia di attivisti. Prelevati con e senza mandato, in un crescendo repressivo galoppante, privando i familiari di notizie e colloqui coi detenuti più o meno eccellenti. Quanti? Forse dodicimila, forse più, neppure Amnesty International riesce a saperlo. Intanto dall’autunno 2013 iniziava lo stillicidio di attentati, solitamente contro bersagli fissi (caserme, check point) e mobili (singoli militari e poliziotti); contro questo clima Sisi ha impostato la campagna elettorale per la corsa alla presidenza conclusa trionfalmente nel maggio 2014. Per la salvezza nazionale, per non far precipitare il Paese nel caos. Un piano totalmente fallimentare poiché l’Egitto è entrato in un gorgo di agguati senza fine e non ne esce. Dietro questi colpi ci possono essere le mani più diverse, come in ogni instabilità. Nonostante neghino ogni addebito, i vertici (rimasti) della Fratellanza sanno che molti giovani attivisti sono finiti nel copioso alveo salafita e del salafismo jihadista. Costoro potrebbero perseguire la destabilizzazione del detonatore.

Ma sulla paura la lobby militare, sempre potentissima e alla quale Sisi appartiene, può giocare la sua partita perpetuando un potere che non ha mai ceduto, neppure nell’anno del governo Qandil e della presidenza Mursi. Poi ci sono i Servizi interni e stranieri che sempre lavorano perseguendo quella finalità d’insicurezza che giustifica ogni “soluzione forte”. In questo contesto la presenza dell’Isis, più o meno come nei territori dello Stato Islamico e ovunque i miliziani di al-Baghdadi compaiono, può risultare autonoma e multidirezionata. Dalle Intelligence più potenti che li supportano dall’Occidente (Cia, MI6, Mossad) e dall’Oriente (Mıt, Isi). Quanta lotta o quanto sostegno ci sia lo scopriremo nel tempo, oggi c’interroghiamo sugli effetti nefasti e osserviamo le manovre con cui, le leadership dei Paesi interessati all’egemonia mediorientale, si frappongono in uno scenario intricato. A cosa punti il presidente-generale che spinge con vigore per l’azione muscolare interna, assieme al ripristino quanto più veloce possibile della pena di morte lo vediamo da mesi. Conservare e acuire la polarizzazione del proprio popolo, servire, come ai tempi di Mubarak, gli interessi occidentali. Impedire ogni evoluzione socio-politica nell’area, d’impronta islamica o laica è indifferente.  

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