Quindici check-point assaltati, trentacinque
poliziotti e militari uccisi e almeno una ventina di miliziani lasciati sul
terreno. E’ la trasferta dell’Isis nel Sinai, a ovest del delta del Nilo nelle
località di El Arish e Sheikh Zuweid. Il luogo è da tempo militarizzato perché
Gaza è vicinissima, oltre il confine di Rafah, e lì le formazioni jihadiste
hanno una presenza di vecchia data. Mentre il Cairo è lontana, non solo negli
oltre 300 km di distanza, ma per l’impossibilità più volte mostrata di non poter
controllare il territorio se non con presidi fissi, peraltro attaccabilissimi.
Era accaduto in altre epoche e con altri governi, da Mubarak all’islamico
Mursi. La stessa stretta ipermilitare di Sisi non produce l’effetto sicurezza
sperato e ora che il modello imitativo, quello del brand dalle bande nere, e
concreti accordi collaborativi fra jihadisti di varia provenienza (nel Sinai
soprattutto Ansar Beit al-Maqdis) s’allarga dalla Tunisia al Mar Rosso simili
azioni destabilizzanti si ripetono a cascata. Fra l’altro un chiaro disegno di
Al Baghdadi consiste nell’insinuare attacchi e paure nel cuore del Mediterraneo
maghrebino, colpirne l’economia turistica (le proiezioni già parlano d’una
flessione del 25% sulle entrate stagionali in Tunisia) e dalle coste minacciare
l’Europa.
Per un uomo d’ordine, fiero della divisa
dismessa solo nella forma non nella forma mentis, qual è il presidente egiziano
i crescenti episodi che stanno rendendo altamente insicura la vita quotidiana
anche nella metropoli cairota sono un affronto insopportabile. L’aveva sottolineato
ieri partecipando ai funerali del procuratore Hisham Barakat, fatto saltare in
aria da un’auto bomba mentre transitava col suo corteo di mezzi blindati che
non gli sono serviti. Anche in quest’occasione sono morti alcuni passanti,
altri erano deceduti giorni fa presso un collegio militare nella zona di
Heliopolis diventato bersaglio delle bombe jihadiste. Stessa cosa in prossimità
del ponte 6 Ottobre. Sisi non sopporta questa situazione e se la gioca alla sua
maniera: sta predisponendo un aggiramento delle attuali leggi che impediscono
l’applicazione delle pene di morte fino al pronunciamento della sentenza
d’appello. Dice: la sicurezza della nazione è in pericolo perciò le condanne a
morte vanno eseguite immediatamente, com’è accaduto a metà maggio ai sei
miliziani jihastisti affiliati all’Isis e giudicati dal tribunale militare.
Quando parla di applicare la pena capitale il pensiero di Sisi va a
quell’opposizione già sentenziata in primo grado che vede uomini simbolo della
Fratellanza Musulmana, da Mursi a Badie, in attesa dell’appello e della forca.
La Confraternita, come ha sempre fatto, parla
contro le violenze e ancor più gli attentati, definendoli inaccettabili pur in
un clima di pesantissima repressione che l’ha eliminata dalla scena politica.
Denuncia come le scelte e la pratica governative fomentino lo scenario
presente, che ha allontanato giovani dalle sue file orientandoli anche verso
scelte estremiste. Certo il procuratore assassinato, che recentemente aveva
azzerato tutte le condanne di alto tradimento oltreché di corruzione e
accaparramento indebito inflitte all’ex raìs Mubarak, non risultava amato da
varie componenti che avevano dato vita alle ribellioni del 2011 e 2012, ma il
clima di restaurazione non è un fatto recente in terra egiziana. E neppure
l’insicurezza, ormai stabilizzata attorno a un disegno securitario che non
offre garanzie ai cittadini, ne impedisce le scelte politiche (le elezioni più
volte promesse da Sisi non sono mai state indette). Restano il clima blindato
di tanti luoghi, le deflagrazioni, i morti mirati e casuali. Secondo le
testimonianze l’attacco del Sinai è stato coordinato, con strade minate perché
i mezzi dell’esercito sopraggiunti dopo l’assalto non potessero realizzare
immediate retate. Così gli asserragliati risultavano i poliziotti, chiusi nelle
caserme che restano l’obiettivo principale degli assalti jihadisti con lo scopo
dichiarato di “smilitarizzare” quell’area.
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