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venerdì 21 novembre 2014

Tunisia, l’ora del presidente

Torna alle urne la Tunisia del cambiamento e della conservazione, stavolta votando per il nuovo presidente. Ventisette candidati, vecchi volponi e alternative reali o presunte. Tredici gli indipendenti. La tesi d’una Tunisia unica nazione delle Primavere arabe a essersi preservata dal caos e dalla restaurazione autoritaria è davanti agli occhi di tutti. Il miracolo s’è materializzato dopo le turbolenze e gli accesi contrasti d’un anno fa fra movimenti laici e Islam politico che, contestatissimo dopo gli oscuri episodi dell’assassinio politico di due capi dell’opposizione, ha evitato il braccio di ferro che avrebbe potuto dipingergli scenari cairoti. Scelta dibattuta fra opportunismo o realismo ha comunque condotto il partito a confrontarsi elettoralmente e accettare la sconfitta da parte dei laici conservatori di Nidaa Tounes, che ora pongono il leader Caid Essebsi, ottantottenne per tutte le stagioni, in prima fila per la più alta carica dello Stato. La Costituzione, adottata dal mese di gennaio, prevede un sistema semipresidenziale con presidente e premier a condividere il potere esecutivo. E’ il capo di Stato, eleggibile per due mandati di cinque anni ciascuno, a presiedere sicurezza nazionale, politica estera e nominare ministro della difesa e degli esteri.
Negli ultimi tempi una questione che ha tenuto banco è l’abolizione della legge che vietava ai politici legati al clanismo di Ben Ali e signora di ripresentarsi alle elezioni. Anche alcuni esponenti di Ennahda hanno accettato l’emendamento, decidendo di confrontarsi alle urne e nei seggi coi vecchi e nuovi volti di quel sistema più che laico, laido, oppressore e torturatore. Decisione sorprendente, che ha aperto il dibattito nelle file di quel partito, ma che lo rimette in gioco nella fase di creazione del prossimo governo. Nidaa Tounes non ha i numeri per formarlo e per ora  ha chiesto consultazioni solo dopo le presidenziali. Da quest’ultima sfida gli islamici si smarcano, non presentando uomini di punta per l’incarico, si dipingono tolleranti e democratici accettando il dialogo a tutto tondo e restano disponibili all’ipotesi di un esecutivo d’unità nazionale.  Fra i nomi noti per la presidenza oltre a Essebsi c’è il presidente uscente Moncef Marzouki, figura rispettata per i suoi trascorsi d’oppositore alla dittatura di Ben Ali; il capo dell’Assemblea Costituente Mustapha Ben Jaafar; la magistrata e prima candidata donna Kalthoum Kannou che, forse deludendo tante femministe del Paese, dichiara di non essere una candidato per le donne, ma per l’intera nazione.

Poi c’è l’out sider che fa impazzire il gossip politico nazionale ed estero. Slim Riahi, già ribattezzato il Berlusconi tunisino, e per chi ha lo sguardo fisso oltre il canale di Sicilia, in lui c’è anche un pizzico di renzismo dato dall’essere quarantenne, ammaliatore, dinamico. Come il prototipo d’ogni buon populista la forza di Riahi sta nel rapporto diretto con la gente. Lui ci va a nozze. Oltre a cercarla negli stadi legandosi e finanziando il Club African lo rincorre coi classici mezzi d’un proprio network televisivo e d’un partito patriottico (Upl). Non disdegna, ovviamente circondato da nugoli di guardie del corpo, di passare in certi tuguri dei sobborghi di Tunisi a promettere lavoro, a far sognare supporter calcistici, giovani disoccupati e disperati. I politologi sostengono che potrebbe essere una sorpresa proprio perché pesca nel serbatoio dell’ignoranza politica, fra le masse sprovvedute e bisognose da cui la famiglia Riahi s’allontanò cercando fortuna in Libia. Accreditato di legami coi Trabelsi e Gheddafi, Slim smentisce solo quest’ultima passata vicinanza. Continua a ripetere che se verrà eletto la sua esperienza di manager e affarista calamiterà investimenti e capitali. Certe chances gli giungono dall’aria che tira in Tunisia: le risposte a un sondaggio preelettorale scelgono con oltre il 70% una più forte economia rispetto a una più forte democrazia. Mentre i tifosi del club dicono: è pieno di soldi, lui non ci ruberà di certo. Provare per credere. Sull’altra sponda del Mediterraneo c’è chi piange ancora.

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