Apertura
all’Europa del presidente-generale per offrire chance all’Egitto martoriato da
un’economia disastrata e dall’instabilità interna sfociata negli ultimi mesi
anche nel terrorismo. Abdel Fattah Sisi, il golpista legale, inizia stamane un
tour italiano che lo porta al cospetto di Napolitano e Renzi, ma anche da papa
Francesco, per poi volare in Francia. Un viaggio con cui cerca assensi
nell’Occidente prossimo, dopo aver ricevuto il benestare di un’America che ha
abbandonato l’infatuazione filo Fratellanza e aver avvicinato, già prima
d’essere eletto presidente, il gigante russo. Resta la Cina, cui penserà a
breve. Il dinamismo diplomatico è una necessità per il paesone arabo rimasto
per un periodo nell’indefinitezza d’una partnership internazionale. Ora quel
che preme maggiormente sono capitali e finanziamenti con cui sfamare milioni di
persone, comprese le tante occupate nell’indotto della lobby militare che fonda
la sua forza sul legame e la subordinazione di milioni di cittadini tenuti
fedeli coi salari offerti dallo statalismo militare più che con un
disinteressato patriottismo. Servono dollari ed euro, aziende disposte a
investire in una nazione che non ha trovato una nuova via allo schema d’un
potere posto sotto tutela dell’esercito che lo guida con un uomo forte.
Quest’uomo,
fautore di un ordine autoritario, che non ha esitato a colpire gli avversari
trucidandoli in strada, giustifica candidamente l’operato. In alcuni passi dell’intervista
esclusiva concessa ieri al Corriere della
Sera afferma: “I Fratelli Musulmani
avrebbero potuto collaborare con le Forze armate, nessuno li perseguitava, si
muovevano liberamente. Invece si dettero alla violenza e crearono
un’occupazione illegale permanente nella zona di Rabaa Al Adaweya attirando
provocatori d’ogni genere. Cosa dovevamo fare?” Alla puntualizzazione di
Franco Venturini sulla durezza della repressione e alle successive condanne con
pene di morte, risponde “Guardi, è lei
che esagera”. Appare più conciliante sul caso dei tre giornalisti di Al Jazeera reclusi da 331 giorni per presunto
attentato alla sicurezza del Paese: “Se
avessi avuto il potere di decidere non li avrei condannati, li avrei espulsi.
Comunque qualcosa si muove, ci poniamo il problema di come risolvere questa
situazione”. Così parla Sisi che ha un altro punto fermo nel programma di
lavoro diplomatico: accreditarsi definitivamente agli occhi del mondo
scrollandosi di dosso il fantasma d’essere un dittatore. Per ottenere il
benestare nel Mare nostrum pensa d’inserirsi nelle ferite sempre aperte della
crisi Mediorientale.
In
Palestina, dunque.
Per la quale ripropone un Egitto mediatore nell’atavica contesa con Israele a
garanzia della sicurezza di quest’ultimo e del diritto d’uno Stato per l’altro
popolo, sfrattato e invaso. La chiave di volta è nuovamente il suo esercito che
andrebbe ad affiancare (sostituire sarebbe utopico) quello di Tsahal nei
Territori occupati. “Non sempre -
chiosa - per il tempo necessario a
stabilire la fiducia. Ma prima deve esistere lo Stato palestinese”. Non è
però tornato, almeno in quest’intervista, sugli sbancamenti effettuati a Rafah,
con tanto di arresti e deportazioni degli abitanti di confine per creare una ‘zona
cuscinetto’ che non serve certamente ai gazawi. Dove non pensa d’inviare truppe
è in Libia lì “… la Comunità
Internazionale deve fare una scelta molto chiara e collettiva a favore
dell’esercito nazionale libico. Aiuti, equipaggiamenti, addestramento, devono
andare all’esercito regolare”. Lui pensa di proseguire la lotta al
terrorismo dell’Isis e di chi s’accredita verso di loro, come il gruppo Ansar
Beit Al Maqdis attivo nel Sinai e non solo. Se l’azione porterà risultati ne
scaturisce il doppio vantaggio di sbrogliare a proprio favore il caos interno e
mostrarsi un alleato affidabile e una pedina importante per la fase attuale che
vede l’Occidente, lontano e vicino, bisognoso d’aiuto. Il generale dei generali
è pronto offrirlo, dove fa comodo a lui. Ana
asif, all’Egitto.
Nessun commento:
Posta un commento