Raddoppia un Karzai e chiamalo governo d’unità nazionale che poi sarebbero
Abdullah più Ghani - i due contendenti alla presidenza che si contestano per
brogli - più i pashtun divisi fra i due fronti e tajiki e uzbeki e signori
della guerra e degli affari. Riuniti tutti appassionatamente. E’ questa la
quadratura del cerchio imposta dal segretario di stato americano Kerry per
salvare da ulteriori complicazioni il giochino elettorale che doveva proseguire
la comparsata democratica d’un Afghanistan a misura occidentale. Così è stato,
perché gli Usa minacciavano di tagliare i finanziamenti a ciascuno dei soggetti
che in gran parte vive di denari esteri (oltre 15 miliardi di dollari annui e
nei momenti di punta addirittura 30), un obolo cui gli afghani del potere e del
crimine non possono rinunciare. Budget affiancato a quello della produzione e
del traffico d’oppio, un commercio, è bene ricordarlo, cui l’Occidente
spacciatore e consumatore risulta interessatissimo. Poiché a loro volta gli
Stati Uniti non mollano una presenza nel Paese, ora metamorfosizzata
militarmente nell’occhio strategico delle basi aeree, e s’interessano di sfruttamento
del sottosuolo e delle possibili pipeline verso le ex Repubbliche sovietiche
caucasiche dell’energia, lusingate dagli altri giganti Russia e Cina, tutto
doveva restare immutabile. E così è stato.
Secondo il traghettatore Kerry, che ha tenuto sul tema
una conferenza stampa alla presenza dei pacificati candidati, molte cose restano
da fare. Compresa la revisione degli otto milioni di schede (nelle scorse settimane
ne venivano dichiarate sette) oggetto della contestazione di entrambi gli
schieramenti che adesso certamente si placheranno. E’ previsto un trasporto
delle urne a Kabul mediante un reparto elicotteristico Usa, e a seguito del
riconteggio entro il 2 agosto verrà nominato un presidente. Ma lo sconfitto, o
il non vincitore, sarà felice egualmente perché avrà piazzato se stesso e i
suoi in posti che contano denari e uso degli stessi, non certo per opere
pubbliche e per risollevare la quotidianità del 70% di afghani poveri, elettori
e non. Ma così va la vita in quella latitudine e nel segno della conciliazione
già è apparso il teatrino del bon ton. Abdullah ha lodato Ghani per lo sforzo
di comprensione del grave momento (sic) attraversato dal Paese. L’uomo della
Banca Mondiale gli ha restituito l’apprezzamento definendolo un patriota,
aggettivo che fa gongolare il dottore compiaciuto nel farsi fotografare sotto
le immagini di Massoud, come a voler riesumare il disegno politico
dell’Alleanza del Nord degli anni Novanta. Mentre la Casa Bianca viene
tranquillizzata dalla certezza che l’uno o l’altro presidente siglerà l’accordo
sul Bilateral Security Agreement col
quale l’Us Army procrastinerà al 2024 la sua presenza sul territorio.
Meno contenti di tali sviluppi sono i vicini di casa
pakistani
che dalla divisione interetnica, religiosa e politica degli afghani possono
sempre trarre vantaggi per egemonie celate o esplicite. Vale per il governo di
Islamabad e per l’amministrazione delle cosiddette Fata, le aree tribali che
rientrano nella federazione pakistana e dove più alta è la presenza delle
componenti talebane, sempre votate a un rilancio d’un proprio intento egemonico
perlomeno delle province del sud-est afghano (Kunar, Nahgarhar, Paktika,
Khost).
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