Tutti fermi fino a
venerdì quando a Kabul giungerà John Kerry. Lo ordina in un discorso ai
sostenitori il candidato Abdullah Abdullah che, qualora venissero confermate le
proiezioni del riconteggio dei tre milioni (sì, addirittura tre milioni di voti
su sette delle presidenziali) conoscerebbe per la seconda volta l’amarezza d’un
naufragio del proprio sogno di gloria. E di potere. Uno smacco insostenibile
per lui e i fan, che in coda al suo comizio proprio non ce l’hanno fatta a
starsene buoni e hanno sfogato delusione e rabbia distruggendo una gigantografia
di Hamid Karzai. Il fantoccio filo statunitense che batté il dottor Abdullah
nel 2009 è considerato il manovratore delle nuove presunte irregolarità, messe in
atto in combutta con l’ex ministro delle finanze Ghani. Un tecnocrate formato
nel Fondo Monetario Internazionale che offrirebbe più garanzie filoccidentali
rispetto al pur sempre opportunistico rivale, e che ora viene accreditato d’un
56,44% di preferenze. Un inatteso rovesciamento di pronostici, cifre del primo
turno e iniziale conteggio del ballottaggio.
Lo spettro della
manomissione fraudolenta delle schede è stato denunciato da entrambi i
contendenti. Ma Ghani sostiene che, nei duemila seggi dove parte dei voti sono
stati riesaminati, quelli che gli appartengono sono i più lineari e
trasparenti. Sottigliezze da bon ton diplomatico, visto che fra le accuse
rivolte alla Commissione Elettorale Indipendente (sic) c’è l’introduzione di
schede pre votate in suo favore, frode per la quale è stato estromesso
dall’incarico il chiacchierato segretario della commissione Zia-ul-Haq
Amarkhail. Mentre i fan di Ghani, di bianco vestiti, danzano soavi per una
possibile vittoria, la rumorosa e agguerrita fazione di Abdullah, già scesa in
strada con cortei, è nuovamente sul piede di guerra. Nonostante i pacifici
pronunciamenti con cui il boss dichiara di non voler creare crisi nel Paese,
una sua eventuale defaillance metterebbe a repentaglio il già fragile
equilibrio di sicurezza. Poiché lascerebbe fuori, o limiterebbe sensibilmente,
gli interessi di quegli alleati con cui s’è fatto fotografare per tutta la
campagna presidenziale. Ex candidati come Sherzai, Sayyaf, Helal diventati
supporter di peso assieme ad altri signori della guerra che si proponevano un
futuro affaristico di tutto rispetto sotto l’ala protettrice del dottore-presidente.
Ora fra le ipotesi
apparse si ventila la possibilità che ciascun pretendente si autoproclami
vincitore e inizi a formare un proprio esecutivo. Uno sdoppiamento che
acuirebbe oltremodo la polarizzazione creata dalla campagna elettorale, reintroducendo
pericoli di conflittualità latente pronti a deflagrare in rinnovate guerre
civili e tribali. Del resto le bombe, talebane o delle Intelligence sempre al
lavoro sul territorio incontrollato e incontrollabile, continuano a esplodere.
Due giorni fa l’ennesimo attentato a Kabul ha fatto contare 16 vittime, fra cui
quattro militari Nato. Ma ciò che preoccupa maggiormente i “portatori di pace”
occidentali è il deragliamento del treno istituzionale, una maschera dietro la
quale perpetuare sfruttamenti e massacri. La comparsata presidenziale sta
opponendo due personaggi di comodo alle finalità internazionali e interne.
Abdullah e Ghani non si preoccupano affatto dei bisogni popolari e di
rilanciare la rinascita della nazione, già minacciata dalle mire di controllo
di ambiziosi vicini (Pakistan, Iran) e da nuovi impulsi imperialisti. Entrambi
potranno gestire il potere per sé, i clan di casa e quelli del business
mondiale, forse con un accordo, evitando di farsi la guerra.
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