I corpi nella Terra santa
e contesa possono giacere inerti. In questi giorni è accaduto a Naftali, Gilad,
Eyal. O diventare cenere come Mohammed. Possono sopravvivere a un odio vivo che
si blocca prima di sfigurare del tutto Tariq. In tanti hanno pianto e le
vendette, quella praticata, minacciata o promessa, restano nell’aria e non
svaniranno anche se i politici stavolta cercano di placare ciò che hanno
fomentato per decenni e ampliato con l’immobilismo dei decenni. Che poi inerzia
non è, visto quello che la politica e la diplomazia internazionali e locali
hanno prodotto con accordi beffa e con un’occupazione che perpetua crimini. Se
Israele si sente insicura per gli assalti insensati e comunque omicidi dei tre
giovani seminaristi compiuti da probabili killer palestinesi, deve rispondere
di anni d’insicurezza e provocazione prodotti, giorno dopo giorno, dall’insediamento
di Hebron e dalle mille colonie sparse in un territorio che dovrebbe essere lo Stato
palestinese. Quella terra dovrebbe essere l’altra nazione e non riesce a
esserlo per precisa volontà di uomini e donne impegnati nell’espressione più
alta della democrazia israeliana, la Knesset.
Sui governi formati da quegli uomini e quelle donne pesano
responsabilità enormi per la violenza, la vessazione, l’umiliazione pubbliche e
private, rivolte spesso a gente inerme.
Tutto ciò non giustifica
la follìa assassina scatenata contro tre adolescenti ebrei, ma di queste
tragedie, di quelle passate o drammaticamente future devono rispondere quei
capi di Stato che ora placano gli animi e giustamente invitano alla ragione. La
ragione del premier Netanyahu, e di chi l’ha preceduto nella guida di Israele
da ogni sponda politica, è priva d’ogni buon senso. La cultura mista di
vittimismo (il proprio) e odio (per l’altro), il razzismo apparso nelle foto
che giovani israeliani - aitanti soldati di leva o ragazze in vacanza - hanno
postato sui social network, albergano nel governo di Netanyahu che continua ad
assegnare il dicastero degli esteri al moldavo Avigdor Lieberman, nonostante
gli scandali corruttivi che l’hanno coinvolto. Un politico che del razzismo
anti-arabo fa professione non nascosta. Ma scandalo ancor più profondo dovrebbe
produrlo il suo mai placato desiderio di aggressione e morte che in questi giorni
gli fa sperare l’ennesimo intervento su Gaza, auspicando un “Pilastro di difesa
due” che cancelli da quei luoghi decine o migliaia di palestinesi, come nel
2012 e nel 2008. Per la gioia degli intolleranti ebrei che direttamente ispira.
Non è granché credibile
neppure l’uomo della poltrona illimitata di sponda palestinese. Il mite Abu
Mazen, che certamente non è seminatore d’odio e violenza, ma ha il vizio eterno
del politico di professione: l’infinitezza del potere. E’ radicato in un ruolo,
la presidenza dell’Autorità Nazionale Palestinese, dal quale da anni deve
rimettere il mandato e indire nuove elezioni, cosa che evita puntualmente di
fare. L’attenuante è l’incertezza che sia la sua fazione (Fatah) sia quella
islamica (Hamas) riscontrano da tempo e l’assenza d’un adeguato ricambio
generazionale. Così ciascuno resta a gestire immagine, spazi, finanziamenti
esteri in un surplace che fa da contorno all’attendismo con cui Israele ha
svuotato ogni presunta conquista delle pluridecennali trattative di pace. Un’Autorità
senza autorità né autorevolezza, che fra l’irrisolutezza di contraddizioni
antiche (la terra rubata, il diritto al ritorno sepolto) e più recenti (la
galera a cielo aperto di Gaza, il bantustan della Cisgiordania) dove esistenza
e dignità umana sono continuamente violate, conserva un insignificante status
quo. Lì può esplodere il desiderio di morte senza senso che ha generato i rapimenti
e gli ammazzamenti a sangue freddo delle due comunità. In un malessere antico
che si rinnova, a riaprire ferite perennemente sanguinanti.
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