Con un’intervista al veleno allo statunitense Washington
Post Hamid Karzai, a un mese dalle presidenziali nelle quali è
indirettamente coinvolto con la candidatura del fratello Qayum e con un’intesa
tutt’altro che segreta con politici che ne proseguirebbero l’opera e gli affari
(Wardak, Rassoul, Ghani) attacca i tutor della Casa Bianca. Sempre in primo
piano la materia del contendere: la sua mancata firma (prima promessa, poi
lasciata in sospeso) al Bilateral Security Agreement, l’accordo necessario al
mantenimento d’una presenza statunitense sul territorio afghano. Presenza anche
militare oltre che geostrategica, che accorderebbe agli Usa il mantenimento di
basi aeree di controllo nel cuore dell’Asia, accanto alla possibilità di
sfruttamento di risorse del sottosuolo che fanno gola a potenze del
circondario, Cina e India in primis. Karzai ha preso la diplomazia per i
capelli offrendo il proprio apprezzamento al contributo del popolo statunitense,
non al governo di Washington verso il quale mostra “accesa rabbia”. Il patto desiderato da Obama (e dal Congresso) è un
formidabile passepartout per la strategia americana nel Grande Medio Oriente;
le contromisure ventilate di un ritiro rapido e totale di tutti i 50.000
militari Isaf entro dicembre 2014 ha il sapore dell’illogica ripicca.
Karzai lo sa e si gode il momento di gloria che lo rimette in quota nella dialettica con le
componenti interne, dai gruppi politici a quelli di potere tribale, dai Signori
della guerra fino agli stessi talebani afghani, smarcandolo nelle dinamiche di
confronto post elettorale coi temibili vicini iraniani e pakistani. In più ha
preparato un vero attacco mediatico alla Casa Bianca con la diffusione di situazioni
con cui si autopromuove a padre commiserevole dei concittadini. Una storia è
ampiamente ripresa dal Post. Mesi fa,
proprio nel corso delle discussioni sull’accordo bilaterale, gli occhi del buon
Hamid si posarono sul volto d’una bimba afghana di quattro anni per metà
devastato dall’esplosione degli ordigni che avevano distrutto l’abitazione dove
viveva e stroncato la vita a 14 suoi parenti. Bombe statunitensi. Bombe
assassine. Quest’episodio avrebbe risvegliato il presidente da un torpore
durato dodici lunghi anni, quelli di cui ora accusa gli Stati Uniti d’aver
guerreggiato in terra afghana per stabilire interessi di parte non della
nazione occupata. Meglio tardi che mai, dice il motto. Peccato che il suo
ravvedimento sentimental-patriottico avvenga dopo lunghissimi anni di gestione
da premier-fantoccio.
In verità sono esistite due fasi presidenziali di
Hamid. L’iniziale dal 2004 al 2009 in
cui si ritrova sempre e comunque schierato con gli alleati Nato che ne ripropongono
la rielezione in un ballottaggio farsa, inficiato da evidentissimi brogli. Non
solo a detta del suo oppositore, quell’Abdullah oggi nuovamente in lizza per
l’incarico presidenziale, ma dagli osservatori internazionali provenienti dagli
stessi Paesi della coalizione Isaf. Quindi dal 2010, momento dell’apertura dei
colloqui fra la Cia di Panetta e la Shura talebana, Karzai inizia a diffidare
dell’alleato e cerca personali colloqui coi nemici. Subodorando il
doppiogiochismo statunitense teme per il ruolo, l’incolumità, i rapporti
interni. Gli ultimi tre anni evidenziano le apertura a tutta la tribalità
possibile, gli inserimenti dei warlords Fahim e Khalili nella sua
amministrazione, il cammino fra la rappresentanza che lo conduce nei consessi
internazionali e la via del narcotraffico e di corruzione e scandali praticati
dal proprio clan. Ovviamente non a sua insaputa. In questi tre anni quando i
caccia statunitensi battevano i centri abitati nelle province di Herat,
Kandahar, Helmand provocando centinaia di morti, anche fra minori, lo sguardo di
Hamid non si posava su nessun piccolo cadavere.
Per questo dalla recente fredda telefonata intercorsa con Obama, con la quale dopo un silenzio
di mesi gli consigliava l’accettazione della firma sul Bsa da parte del
successore, Karzai rinnova la nota furbizia ma risulta nient’affatto credibile.
Dire, come ha fatto nell’intervista in questione, che la causa comune con gli
Usa viene meno per i bombardamenti rivolti ai civili anziché ai santuari
talebani in Pakistan potrà contenere una verità che nella sua bocca assume
contorni di demagogia spicciola. Come i ripensamenti sull’utilità della guerra
e sulle costrizioni con cui avrebbe accettato quel che ha fatto finora nel suo
ruolo. Eppure in patria lo lodano, quest’intervento sembra improntato a una
difesa della sovranità nazionale, della necessità di un rilancio economico che
poi sono i refrain di diversi candidati al suo scranno. Assieme alla
conservazione della sicurezza che costa 4 miliardi annui e l’anno passato ne ha
ricevuto soltanto 1,7. E’ in base a tutto ciò che l’eredità lasciata da Hamid,
al di là di alzate di scudi condurrà i suoi eredi a dialogare ancora se non coi
piani coloniali in stile britannico o sovietico, col nuovo volto del dominio
imperiale in divisa e non. Contro i veri bisogni del popolo afghano.
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