L’Egitto
che ripristina il Consiglio Supremo delle Forze Armate, quello dell’immediato
dopo Mubarak e della continuazione per sedici mesi (marzo 2011-giugno 2012) di
repressioni e stragi per mano di poliziotti, agenti dei Servizi, teppisti,
provocatori medita sul da farsi. Non c’è più l’Esecutivo provvisorio di Beblawi
sostituito da Ibrahim Mehleb, c’è tuttora Mansour come presidente a interim, ma
dovrà lasciare. E c’è l’icona che fa sognare la maggioranza del Paese, ampliata
dall’idea d’una riedizione del nasserismo, quel generale Al-Sisi su cui converge
il supporto di nostalgici dell’ultimo raìs, laici di destra e sinistra,
ondivaghi e di chi si butta col più forte. Obiettivamente un cospicuo numero di
elettori che possono designarne il successo alle urne. Ma per le elezioni
presidenziali, fatte scivolare verso il mese di maggio, è sorta una
meditazione, più esterna che interna. I due sponsor arabi della svolta
militare, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, secondo alcune fonti
starebbero in questi giorni valutando la possibilità di far scegliere altre
strade al fedelmaresciallo, previa ovviamente lauti finanziamenti da far
giungere alle Forze Armate e alla disastrata economia egiziana.
Al-Sisi
continuerebbe a fare il ministro della difesa e a presiedere lo Scaf ora che la
nuova Costituzione svincola questa struttura dai poteri del Capo di Stato, alla
cui carica potrebbero concorrere altri. Il leader militare e dello Scaf non ha
più il controllo del presidente, diventa di fatto la figura che detiene il
diretto controllo del vero potere, armato e non. Così si eviterebbe di mettere
in primo piano un uomo come Sisi, considerato una pedina importante per la
costruzione del nuovo assetto filo occidentale della nazione in coerenza con lo
status quo che interessa le petromonarchie (dove prevalgono le sempre accese
mire regionali dei sauditi) e ovviamente il controllo strategico statunitense
sul turbolento Medio Oriente vicino. La salvaguardia d’un personaggio comunque
carismatico come il generale contro il logorìo delle proteste, pur represse,
della Fratellanza Musulmana risulterebbe più vantaggiosa al su citato
obiettivo. Il ruolo di presidente, dai poteri limitati, potrebbe cucirsi
addosso a nomi noti. Sia chi s’è già candidato come Sabbahi, eternamente
mascherato di progressismo, sia figure d’apparato quali Sami Anan o un ex
gradito agli emiri di Abu Dhabi, Ahmed Shafiq.
Questi
due nomi, il primo perché rimosso da Mursi, il secondo perché battuto
dall’islamico nel ballottaggio del 2012, raccoglierebbero l’adesione
dell’elettorato che rigetta l’Islam politico e vuole vendicarsi della gestione
della Confraternita. Le valutazioni sono in ogni caso aperte, poiché c’è chi
sostiene che mai come in questo momento un candidato è alle stelle nella
possibilità di riuscita. Quest’uomo è naturalmente Sisi che allo stato attuale
può ricoprire ogni incarico. La scelta appare divisa fra un potere palese e uno
occulto, seppure di occulto dai giorni del golpe bianco che molti definiscono
seconda rivoluzione resti ben poco.
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