Votare e votare. Contro la Fratellanza
e il caos, per la patria e la rinascita dell’Egitto, per insediare presto come
presidente il salvatore della nazione: Abd Fattah Khalil Al-Sisi. Nei 30.000
seggi dove sono chiamati 53 milioni di egiziani, in quel simbolo di democrazia
difeso da 200.000 soldati, la popolazione si è recata con ogni mezzo. Vecchi
claudicanti sorretti da famigli e militari, anziane in carrozzina, donne con e
senza chador. Uomini vestiti a festa e in dimessi panni da lavoro, profumati
alla maniera di certi passeggiatori della Sanadiqiyya di Mahfuz e scamiciati
che avevano fino a poco prima tosato pecore fin dentro i suburbi della
capitale. E barbe salafite, di attivisti qualunque di Al Nour e dei leader come
Talaat Marzouq che, tinto il dito indice per contrassegnare il passaggio
all’urna, mandava a dire agli avversari della Fratellanza di rivedere posizioni
e ostilità verso i militari. Ovviamente ha votato lo stato maggiore
dell’esercito, con decine di telecamere che seguivano Al Sisi a ogni passo che
lo separava dal seggio. Ha segnato la sua scheda il grande imam della moschea
Al-Azhar El-Tayeb, inserendola in una postazione di Luxor. Ha votato Mubarak:
in una cabina allestita nell’ospedale Maadi.
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Come
mostrano talune foto anche i bambini simulano il voto del futuro. E’ la
marea plebiscitaria che monta come durante le oceaniche manifestazioni anti
Mursi di giugno. Lo sposare l’aria vincente protetti dalla moltitudine e dai
carri armati, quel farsi maggioranza per paura e convincersi che i feloul della politica non
reintrodurranno l’Egitto del passato, tutto carcere per i deboli e business per
gli straricchi. Si fa strada il dubbio che lo stesso strabordante successo
islamico alle politiche libere del 2011-12 subisse l’ipnosi e la forza
dell’omologazione. Nelle segrete in cui vengono trattenuti i leader della
Confraternita dovranno chiederselo. Nelle code ai seggi della capitale si
sentiva: “Sisi unirà il Paese: musulmani,
cristiani, tutti berremo dal Nilo (etiopi permettendo, ndr). Abbiamo bisogno dell’uomo forte per
proteggere la nostra antica nazione e per far sotterrare le ostilità”. E
ancora “Basta, ce n’è abbastanza.
L’Egitto non può proseguire così, abbiamo bisogno d’un governo che possa
lavorare, ci servono sicurezza e rilancio dell’economia. Questa Costituzione è
buona, è civile, è per tutti gli egiziani, non va bene solo alla Ikhwan”. <iframe width="560" height="315" src="//www.youtube.com/embed/naGJOG4IR5s" frameborder="0" allowfullscreen></iframe>
Intanto quel che si sotterra
sono altri undici corpi. Quattro morti a Sohag nell’Alto Egitto, due nel
governatorato di Giza, uno nei paraggi, e in ordine sparso sulle piazze
turbolente del Delta e Alessandria. Scontri fra chi si martirizza per Rabaa e
gli uomini in nero, coadiuvati dagli antislamisti. Ennesimi martiri per i
compagni di lotta e immolazione, gente senza volto per i militi stretti in
quelle divise cachi che non li fanno crudeli. Eppure continuano a uccidere a
comando, gli dicono “Fuoco!!” e loro
premono il grilletto senza ascoltare il tonfo del corpo, avvertendo dalla
distanza solo di avere una buona mira. Se la mattanza proseguirà anche stamane,
lo sapremo a breve ma non è una novità. Quasi si perde il filo del perché si va
a morire per un Egitto abitato da persone che non ti guardano in volto quando
t’uccidono e forse neppure s’accorgono del killeraggio. Oppure lo ritengono il
male minore. Come i concittadini che tre anni or sono li contestavano e ora li
pensano via obbligata per lo Stato democratico. Mohamed Badr, Abdullah Al-Shami,
Peter Greste, Baher Mohamed, Mohamed Fahmy giornalisti e cameramen di Al
Jazeera con 183, 153 e 17 giorni ciascuno di detenzione per aver narrato le
stragi di luglio e dicembre faticano a considerarlo tale.
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