Ventuno persone, tredici
stranieri e otto locali, sono le vittime di un assalto avvenuto ieri sera in un
ristorante libanese della ‘città proibita’ di Kabul, l’area iper protetta dove
sorgono ambasciate e sedi della cooperazione internazionale. Mentre un kamikaze
si faceva esplodere sull’uscio, provocando morte e panico, entrava in azione un
commando guerrigliero che ha continuato il tiro a bersaglio. L’azione, secondo
quanto riferito da alcuni testimoni, è durata una ventina di minuti ed è
ascrivibile all’insorgenza talebana che ha voluto vendicare un attacco delle
forze Isaf nella provincia di Parwan. Queste, nei giorni scorsi, hanno seminato
morte fra i civili compresi sette bambini. Oltre a colpire gli stranieri
presenti (fra le vittime occidentali si contano due canadesi, due americani, un
britannico, un russo tutti legati all’attività diplomatica) le forze talebane
mirano ad alternare il terreno del colloquio e del conflitto nell’anno di
transizione in corso. Azioni altamente spettacolari, ricordiamo nell’anno
appena concluso quelle attuate nell’area del palazzo presidenziale,
all’aeroporto della capitale e presso la Corte Suprema, hanno una funzione
propagandistica interna e un monito esterno.
Le forze talebane mirano a
influenzare le due le ipotesi che si danno gli occupanti in parziale
smobilitazione, posto che le truppe statunitensi resteranno con una quota
compresa fra gli 8.000 e 15.000 soldati. La prima è una concentrazione del
controllo militar-amministrativo nel luogo nevralgico istituzionale e simbolico
che è Kabul, da cui i Taliban sono stati espulsi da tempo. La seconda sarebbe il
mantenimento di presidi Nato nelle province dove tuttora sono dislocate le
truppe (Herat, Kunduz, Kandahar, Helmand oltre che Kabul). Per quest’ultima
ipotesi il ritiro occidentale dovrebbe essere molto più ridotto di quello preventivato,
visto le estreme difficoltà di controllo delle province menzionate oltre le
mura dei campi base. La prima ipotesi comporta un necessario compromesso con
l’insorgenza talebana locale, con quella d’importazione pakistana sostenuta
anche dall’Intelligence di Islamabad, e coi Signori della Guerra che
s’apprestano a rinnovare la presenza nelle più alte istituzioni afghane, futura
carica presidenziale compresa. Inutile sottolineare l’evidente fallimento
dell’intera missione Enduring Freedom
nella duplice veste militare e politica.
Resta quella diplomatica,
vissuta sotto il reale tiro delle armi subìto dal personale di ambasciate e carrozzone
cooperativo nella nient’affatto sicura Kabul. Ormai neppure quel quartiere
super corazzato, difeso da mura di cemento armato, blindati, cavalli di frisia,
costituisce una zona franca per il personale dell’occupazione Nato. Tuto ciò fa
crescere lo sgomento anche nella diplomazia Onu, ormai percepita quale nemico
da una parte della gente afghana, come ha esternato in un odierno intervento un
angosciato segretario generale Ban Ki Moon.
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