Abu Zaabal non è come Ghraib,
almeno per ora. E’ comunque un carcere, opprimente come ogni prigione e
vigilato in maniera sempre più soffocante, perché lì sono stipati i nemici
d’Egitto. Non solo per il generale e attuale ministro della Difesa Al-Sisi, il
golpista che fa sognare i conservatori di casa, ma per gli stessi liberali e
progressisti del Fronte di Salvezza Nazionale. Sono stati gli uomini e le donne
della triade ElBaraddei-Moussa-Sabbahi a sdoganare, nella campagna della
primavera più oscura che il Paese ha vissuto da tempo, gli armati sui carri e gli
F-16 rombanti sul cielo di Tahrir. Non ne avevano bisogno. La scorsa primavera ha
schiacciato quella del 2011, stagione della speranza di democrazia e libertà
tradita da tutti, sicuramente anche dal governo islamico, che è stato però la
vittima sacrificale della revanche militarista. A essa hanno prestato fianco e
popolarità i Tamarrod, apprendisti stregoni d’un rinnovamento subito rimosso
dalla lobby che tutto controlla: armi, economia, relazioni diplomatiche e politica
estera. In faccia a ogni laicismo borghese le uniformi ribadiscono chi comanda
e come nel Paese.
Verso Abu Zaabal, una trentina di
chilometri nord-est dal Cairo, in quel mix di campi e casupole che segna il
continuum urbano della capitale, c’è un via vai di popolo errante. I familiari
dei 700 e forse più (i dati del ministero dell’Interno sono vaghi) manifestanti
reclusi nella retata con massacro del 14 agosto scorso, quando l’erba e la
polvere dell’area antistante la moschea Raaba Al-Adeweya si macularono di rosso
vivo. Diventato coi giorni pastoso fango di linfa umana. La strage dei mille suggellò la
“democrazia contro la dittatura islamica”, ma nella conta delle famiglie
mancano ancora tante persone non si sa se uccise, imprigionate, fuggite. Nuovi
misteri d’Egitto, dopo i desaparecidos dell’epoca Tantawi. Una nazione che fra
gli 85 milioni che la popolano deve sfamare tanti figli di strada, non si fa
scrupolo se di un migliaio (molti giovanissimi) si perdono le tracce. Sicuramente
non pensano a loro gli Al-Mansour e Al-Beblawi, facce di sale a copertura d’un
regime che rifugge passate etichette. Ai detenuti delle quattro dita (a ricordo
di Raaba, che in egiziano significa quattro) i familiari portano cibo e
vestiti, oltreché l’affetto di figli o fratellini più piccoli. Una madre quarantenne
che visita il rampollo incarcerato può avere con sé almeno tre-quattro figlioli,
compresi pargoli in fasce.
Giorni e ore di code per dieci minuti di colloquio,
come sa chiunque abbia visitato dei detenuti. Ancor più se politici. Le notizie
riportate risultano inquietanti, talune raccontano di aulette di cinquanta
metri quadrati trasformate in celle, con oltre sessanta detenuti che dormono in
terra, senza letti, avvolti in coperte fornite dai parenti. Nei primi due mesi
di reclusione l’acqua per le abluzioni è stata carente, l’uscita all’aria
impedita. I trattamenti non raggiungono i livelli di tortura praticati nella
più tristemente nota prigione irachena durante l’Iraqi Freedom, ma le minacce e le umiliazioni non mancano.
Parecchie sono note agli attivisti transitati nelle stazioni di polizia e nelle
prigioni: il “welcome party” (passaggio e ripassaggio fra due ali di agenti che
ti manganellano nei punti più delicati) quindi furti di denaro e vestiario. Talune
notizie sono fornite dai giornalisti arrestati ai
familiari nel corso dei pur brevi incontri. Qualcuno di loro medita di
pubblicare un libro su quanto stanno vivendo se solo riuscirà a varcare i cancelli di Abu
Zaabal. Non è detto che accadrà a breve. Per i giornalisti non schierati con
Al-Sisi e uniti al numeroso opportunistico coro della “lotta al terrorismo
islamico”, che assomma chiunque denunci il giro di vite sulla Fratellanza
Musulmana, tira un’aria nient’affatto salubre.
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