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mercoledì 11 dicembre 2013

Abu Zaabal, la prigione d’Egitto


Abu Zaabal non è come Ghraib, almeno per ora. E’ comunque un carcere, opprimente come ogni prigione e vigilato in maniera sempre più soffocante, perché lì sono stipati i nemici d’Egitto. Non solo per il generale e attuale ministro della Difesa Al-Sisi, il golpista che fa sognare i conservatori di casa, ma per gli stessi liberali e progressisti del Fronte di Salvezza Nazionale. Sono stati gli uomini e le donne della triade ElBaraddei-Moussa-Sabbahi a sdoganare, nella campagna della primavera più oscura che il Paese ha vissuto da tempo, gli armati sui carri e gli F-16 rombanti sul cielo di Tahrir. Non ne avevano bisogno. La scorsa primavera ha schiacciato quella del 2011, stagione della speranza di democrazia e libertà tradita da tutti, sicuramente anche dal governo islamico, che è stato però la vittima sacrificale della revanche militarista. A essa hanno prestato fianco e popolarità i Tamarrod, apprendisti stregoni d’un rinnovamento subito rimosso dalla lobby che tutto controlla: armi, economia, relazioni diplomatiche e politica estera. In faccia a ogni laicismo borghese le uniformi ribadiscono chi comanda e come nel Paese.   
Verso Abu Zaabal, una trentina di chilometri nord-est dal Cairo, in quel mix di campi e casupole che segna il continuum urbano della capitale, c’è un via vai di popolo errante. I familiari dei 700 e forse più (i dati del ministero dell’Interno sono vaghi) manifestanti reclusi nella retata con massacro del 14 agosto scorso, quando l’erba e la polvere dell’area antistante la moschea Raaba Al-Adeweya si macularono di rosso vivo. Diventato coi giorni pastoso fango di linfa umana. La strage dei mille suggellò la “democrazia contro la dittatura islamica”, ma nella conta delle famiglie mancano ancora tante persone non si sa se uccise, imprigionate, fuggite. Nuovi misteri d’Egitto, dopo i desaparecidos dell’epoca Tantawi. Una nazione che fra gli 85 milioni che la popolano deve sfamare tanti figli di strada, non si fa scrupolo se di un migliaio (molti giovanissimi) si perdono le tracce. Sicuramente non pensano a loro gli Al-Mansour e Al-Beblawi, facce di sale a copertura d’un regime che rifugge passate etichette. Ai detenuti delle quattro dita (a ricordo di Raaba, che in egiziano significa quattro) i familiari portano cibo e vestiti, oltreché l’affetto di figli o fratellini più piccoli. Una madre quarantenne che visita il rampollo incarcerato può avere con sé almeno tre-quattro figlioli, compresi pargoli in fasce.

Giorni e ore di code per dieci minuti di colloquio, come sa chiunque abbia visitato dei detenuti. Ancor più se politici. Le notizie riportate risultano inquietanti, talune raccontano di aulette di cinquanta metri quadrati trasformate in celle, con oltre sessanta detenuti che dormono in terra, senza letti, avvolti in coperte fornite dai parenti. Nei primi due mesi di reclusione l’acqua per le abluzioni è stata carente, l’uscita all’aria impedita. I trattamenti non raggiungono i livelli di tortura praticati nella più tristemente nota prigione irachena durante l’Iraqi Freedom, ma le minacce e le umiliazioni non mancano. Parecchie sono note agli attivisti transitati nelle stazioni di polizia e nelle prigioni: il “welcome party” (passaggio e ripassaggio fra due ali di agenti che ti manganellano nei punti più delicati) quindi furti di denaro e vestiario. Talune notizie sono fornite dai giornalisti arrestati ai familiari nel corso dei pur brevi incontri. Qualcuno di loro medita di pubblicare un libro su quanto stanno vivendo se solo riuscirà a varcare i cancelli di Abu Zaabal. Non è detto che accadrà a breve. Per i giornalisti non schierati con Al-Sisi e uniti al numeroso opportunistico coro della “lotta al terrorismo islamico”, che assomma chiunque denunci il giro di vite sulla Fratellanza Musulmana, tira un’aria nient’affatto salubre. 

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