Fra i forconi rabbiosi d’Italia e le quattro dita
ribelli egiziane c’è di mezzo un Mediterraneo che su sponde opposte, e non
necessariamente contrapposte, mostra differenti versioni d’un diffuso
malcontento. Sgombriamo il campo da similitudini. Al confronto ci spingono i
sintomi del malessere globalizzato di un sistema che da noi ha il ricordo d’un
benessere in troppi casi tramontato e nella nazione nordafricana non ha avuto
neppure un segnale d’una possibile redistribuzione della ricchezza. La sua
economia chiusa in un capitalismo di casta prima che di Stato avvantaggia la lobby militare, con le
eccezioni di tycoon straricchi e assolutamente trasversali per fede politica e
religiosa. Al Cairo e dintorni pochi businessmen laici, islamici e copti detengono
rendite non rimesse in circolo se non in rare forme di lavoro super sfruttato.
Se le strade italiane di queste
ore raccolgono il variegato
scontento della piccola borghesia d’impresa e commercio, visto che da tempo
riscritture economiche ritmate dal liberismo definiscono imprenditore anche il
tassista o il norcino con chiosco semovente, i corrispettivi egiziani, che ci
sono e sono numerosi, se ne stanno a guardare. In tanti hanno aderito alla rivolta
anti Mubarak tre anni or sono poi si sono fermati a chiedere una normalità che
non è tornata, anzi s’allontana. L’economia è la grande malata anche nella
nazione araba che continua a dipendere dai miliardi di dollari centellinati da
amici interessati come gli statunitensi. Costoro, pur fra rimbrotti, hanno
sborsato l’1.3 miliardi di dollari a sostegno dell’apparato militare. Oppure dipende
dalla monarchia saudita, dispensatrice fino a 9 miliardi di dollari di
sovvenzioni per i prossimi tre anni purchè il periodo scivolerà nei modi
graditi dai finanziatori. E l’attuale gradimento è tutt’uno con l’annientamento
dell’organizzazione più forte, diffusa e votata dell’ultimo biennio: la
Fratellanza Musulmana.
L’attacco a quest’organizzazione, che aveva stravinto elezioni politiche e
presidenziali, s’è materializzato col golpe bianco di luglio, il massacro di
oltre mille attivisti e simpatizzanti, l’arresto della leadership e di migliaia
di militanti con successiva messa al bando del movimento. Contro questo disegno
un pezzo d’Egitto sta scendendo in piazza ormai da cinque mesi e subisce una repressione
senza precedenti al cospetto d’una silente comunità internazionale. L’odierna
protesta torna sui temi della libertà individuale e collettiva interdette
dall’uomo forte del momento, il generale Al-Sisi. Le sue intenzioni, sostenute
dal mai scomparso Egitto mubarakiano, puntano a soffocare ogni dissenso,
rimettendo la direzione del Paese in mano alla casta delle stellette e al
capitalismo interno solidale e servile verso il controllo imperialista. Negli
ultimi tre anni la società egiziana ha conosciuto proteste contro la
disoccupazione, aumentata per la fuga degli investitori stranieri dopo il 25
gennaio 2011. Il blocco dell’area industriale del Delta del Nilo e i vuoti
nell’amplissima filiera turistica fra le città d’arte e le località marine creano
tuttora una situazione drammatica per il quotidiano sostentamento di milioni
famiglie. L’Egitto ha conosciuto proteste per i salari bloccati e il carovita, per volute mancanze di generi di prima
necessità, finanche granaglie e carburante. Ora la contestazione è tornata ideale,
come all’esordio, marcata d’intenti libertari contro la stretta repressiva che reintroduce
paure e terrore, stritolando ogni cittadino oppositore.
I giovani urlanti a Torino oppure
a Napoli, fuori dalle infiltrazioni
fascistoidi o dalle strumentali sassaiole ultrà, accusano la politica ma non
sembrano darsi prospettive. A ragione maledicono i governi ladri e gabellieri, imprecano
contro i partiti che non li proteggono come un tempo, vomitano improperi su un
sistema che non gli garantisce più il ruolo di padroncino, fosse pure di se
stesso, usurpandogli lo status, dopo averne incentivato iniziative iper
individuali nella corsa sfrenata del tutti contro tutti d’un mercato corsaro
che premia ogni sgambetto e colpo basso. Accanto al blocco di qualsiasi rilancio
produttivo si constata l’esistenza di un sovrappiù di quei lavori che per fare
denaro necessitano dell’altrui denaro. Black-out, dunque, crisi sistemica.
Eppure il nostro sistema s’è inceppato ben prima della cannibalizzazione introdotta
dalla Troika. Dagli anni Settanta, decennio dopo decennio, il Belpaese dismetteva
certa attività produttiva forte. Con la responsabilità della grande impresa che
inseguiva improbabili diversificazioni; fuggiva, complice lo Stato, a cercare
manodopera a condizioni schiavistiche; inseguiva la finanziarizzazione corsara
dei capitali. Illudeva ex operai nel diventare benestanti.
La trasformazione del nostro orizzonte
lavorativo ha ingigantito
oltre misura il terziario soggiogandolo al clientelare voto di scambio, mentre
su un altro versante incentivava l’anabolizzazione del mercantilismo
commerciale. Le città rigurgitano impiegati d’ogni genere di servizi spesso
inservibili, di negozianti, dettaglianti, trasportatori di merci vaganti come
mine per lavori che rischiano di girare a vuoto. E’ l’altra faccia della
medaglia d’un capitalismo incapace di sbrogliare una matassa che stritola vite
umane, produce storture invogliando inefficaci luddismi. Al cui cospetto il
braccio armato dello sfruttamento slaccia in casco e strizza un occhio
solidale. Fratellanza sentimentale delle nostre Forze dell’Ordine? Chissà. I
loro colleghi in nero al Cairo non l’hanno mai fatto. Anzi. Lì picchiano,
sparano, uccidono. Come da noi quando chi protesta fa tremare i Palazzi. E’ qui
la differenza fra uomini e donne delle quattro dita e il popolo dei forconi.
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