Nei due giorni di colloqui apertisi stamane al Cairo
fra i ministri degli esteri egiziano Fahmy e russo Lavrov c'è quasi il sapore dell'album
dei ricordi, con foto storiche d’un mondo diviso in blocchi, di partnership e speranze
terzomondiste, d’un passato che oggi può ripresentarsi più negli interessi di
gruppi politici e di potere che nella fiducia di miglioramento degli strati
popolari. Non solo perché Lavrov non è Kosygin e la distanza dello spessore
politico, seppure simili paralleli siano improponibili, fra Putin e Kruscev risulta siderale. Ma perché occorre valutare come si va posizionando Mosca in Medio Oriente e altrove. Per ora il
metaforico abbraccio conduce a valutazioni pratiche di carattere economico,
glissando ampiamente la scottante questione della legittimità dell’attuale
gruppo dirigente egiziano che per una parte della nazione ha spodestato illegittimamente
Mursi. Gli incontri condurranno Lavrov al cospetto dei contestati presidente ad
interim Al Mansour e ministro della Difesa generale Al Sisi, non entreranno nel
merito della questione del “colpo di stato bianco” e della sanguinosa
repressione di quest’estate, più per opportunità che per volontà di non
ingerenza. Sebbene la politica mediorientale del Cremlino degli ultimi tempi si
dimostri molto più attenta, oculata ed efficace di quella della Casa Bianca,
prigioniera quest’ultima di mai accantonate tentazioni muscolari non solo da
parte Neocon.
Rievocando i settant’anni di contatti, seppure dal
1979 la leadership cairota avesse guardato quasi esclusivamente Oltreoceano,
Lavrov ha toccato un tema sensibile per le casse egiziane: il turismo. Che è in
forte ripresa, più 230% dallo scorso settembre nonostante i tumulti di piazza estivi.
Un riscontro che mancava dall’avvìo della “Primavera”, pur se si è ancora ben
lontani dai 14,7 milioni di turisti registrati nel 2010. Ma vacanzieri, nuovi
ricchi e probabilmente affaristi russi interessati ai resort sul Mar Rosso o ai
tour operator dei siti archeologici amerebbero una situazione tranquilla che
tuttora manca. Levrov ne ha discusso con l’omologo prospettando una
collaborazione sul tema della sicurezza interna e forse proponendone una delle
Intelligence (chissà cosa ne pensano a Langley) per la lotta al terrorismo
jihadista, spettro per entrambi i governi. Dalla sicurezza si passa agli
armamenti. Anche qui l’amarcord ripropone quel che c’era in epoca nasseriana e
ciò che è accaduto dopo. Oggi il protettorato statunitense dona al Paese
quell’1,3 miliardi di dollari che costituiscono la base su cui si fonda la
stabilità della potente e onnipresente lobby militare da cui proviene Al Sisi.
Ma nel valzer delle aperture nulla osta che si torni all’antico e che Mosca
alletti la leadership con propri fondi e forniture. Per ora si parla d’un pezzo
pregiato della marina russa il Varyag,
nato incrociatore a metà anni Sessanta, modificato nei Novanta, che sfoggia una
versione portaerei con missili da crociera. Un esemplare del
“giocattolo” stazionerà per cinque giorni nel porto di Alessandria.
Fermi restando i discorsi sulla cooperazione fra i due
stati, anche in relazione al commercio di armamenti pesanti, i ministri promettono
di profondere reciproci sforzi per il conseguimento della pace nella regione.
In primo luogo verso la polveriera siriana da disinnescare politicamente, come
da approccio per mesi suggerito da Lavrov in persona e attualmente accettato
dai filo intervisti occidentali. La collaborazione con Washington per ripulire
dalle armi chimiche i siti siriani (oltre 1000 tonnellate di materiale
pericolosissimo) comporta l’onerosa spesa di 13 milioni di dollari, la Russia
ha per ora contribuito con due propri. L’Egitto riveste un ruolo centrale verso
l’ex nemico israeliano sulla questione palestinese. I due ministri degli esteri
concordano sul disegno di svuotare l’area da armi di distruzione di massa, tema
cui Israele non ha mai prestato ascolto, che diventa ancor più ostico se
accompagnato all’altra idea su cui Lavrov e Fahmy concordano: riportare i
confini fra israeliani e palestinesi alla situazione pre guerra dei ‘Sei
giorni’. Mentre proseguono i colloqui giunge la notizia dell’ennesima sferzata
ad attivisti e simpatizzanti della Fratellanza Musulmana. Alcuni di loro sono
stati condannati a 17 anni di carcere per gli scontri scaturiti dall’attacco ai
locali dell’università di Al-Azhar. I magistrati li hanno accusati di
terrorismo, quel che resta dei vertici della Confraternita sostiene siano studenti.
Ma del loro caso e della repressione strisciante nei colloqui di Stato non si
fa cenno.
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