Fra le “Dieci e cento Nassirya” gridato
in faccia ai carabinieri dai settori più oltranzisti dell’opposizione sinistrorsa
e lo stupore dell’italiano medio al sanguinario attentato alla nostra “missione
di pace” (12 novembre 2003, base “Maestrale” della Multinational Specialized
Unit) in una delle guerre più losche e ideologiche lanciate dal bellicismo
statunitense, c’è tutta l’ambiguità dell’alternanza politica italiana nella
cosiddetta seconda Repubblica. Un centrodestra e un centrosinistra speculari sul
versante estero e totalmente asserviti alle decisioni della Casa Bianca che - sull’onda
dell’attacco preventivo all’asse del Male voluto da Bush jr e dai neocon, dal
lobbismo di petrolieri e fabbricanti d’armi che li sostenevano, dal “Patriot
act” divenuto legge - s’accodavano alla “caccia al terrorismo” pensando di tenersi
ai margini d’una santa Barbara. Se per caso la polveriera deflagra giungono
stupore e sbigottimento, amplificati, assieme a un decontestualizzato patriottismo,
da un’ampia compagnìa mediatica maestra nella propaganda. Le vittime sono una
buona fetta dell’opinione pubblica e quei giovani che vestono la divisa e
s’arruolano, pensando di essere portatori di pace (sic). Li chiamano così
rendendoli, in troppi casi, vittime a tutto tondo.
Quel mattino di dieci anni fa alle 8:40 italiane diciassette di loro diventavano
brandelli e frammenti, mescolati a quintali di polvere. Disintegrati anche i
corpi di altri due italiani, un cooperante e un regista, e di nove iracheni
impiegati nella struttura. Un camion imbottito d’esplosivo lanciato
contro la palazzina seminava morte, sangue dei feriti, strazio dei familiari e
di una nazione intera. Un milite, smembrato anch’egli dal botto, contenne la
strage uccidendo i kamikaze il cui ordigno a quattro ruote si schiantava su un
cancello d’ingresso, limitando il numero dei morti. Su quelle bare si
riversarono lacrime, dolore, indignazione, retorica ma poche domande sul ruolo
dei carabinieri impiegati in quell’Unità specializzata, già attiva in Bosnia e
Kosovo per compiti di pubblica sicurezza. In un Paese invaso e bombardato
com’era da otto mesi l’Iraq si doveva necessariamente tenere l’allerta a mille.
Chiunque vestisse quelle divise, in quel luogo, non poteva non sapere di
trovarsi in guerra e di essere un potenziale bersaglio. Se il capo di Stato
Maggiore dell’epoca, il ministro della Difesa Martino, il premier Berlusconi,
il presidente Ciampi sostenevano il contrario illudevano sessanta milioni di
cittadini oltre se stessi.
L’obiettivo americano di far cadere la creatura
d’un tempo, il dittatore alleato Saddam Hussein, cercava
grandi pretesti. Però le “armi di distruzione di massa” non erano state trovate,
né lo furono in seguito. Eppure la “coalizione dei volenterosi” (per 87% marines
statunitensi) iniziava l’invasione e in due mesi occupava l’intero territorio.
Fino a quel momento l’Iraqi Freedom,
dai nostri vertici militari culturalizzata in Antica Babilonia, aveva contenuto gli strazi di civili. Non era
stato ancora catturato Saddam, stanato dalla famosa buca e condannato a morte
dopo un processo accelerato e sommario. Ma nella primavera del 2004 la
resistenza si diffondeva, a cominciare dall’esercito del Mahdi che nel sud guidava
una ribellione di massa dell’etnìa sciita. I bombardieri continuano a decollare
e sganciare, lo faranno per anni disgregando corpi come a Nassirya, con la
differenza che quegli iracheni la guerra non l’hanno mai voluta né cercata.
70.000, 650.000 quanti sono stati i morti sotto lo bombe? Non lo sapremo mai.
Sappiamo di certe crudeltà, di attentati, rapimenti, esecuzioni soprattutto
quelli che parlano italiano, contractor alla Quattrocchi, volontari come Baldoni
e lo 007 Calipari, stroncato dal fuoco degli amici americani.
Sappiamo,
ma la retorica che reitera spesso dimentica, tant’è
che missioni simili il Parlamento continua a finanziarle. Sappiamo che nella
melma irachena si rotolavano i marines di Abu Ghraib godendo nel farsi fotografare col nemico al guinzaglio e quelli
di Haditha che non erano migliori. Quindi gli avieri che sparavano fosforo
bianco a Fallujah e chi crivellava la gente dagli elicotteri Apache a Baghdad. Quante
case, quante moschee, quante cupole d’oro ha perduto la capitale incantata e
quanti civili iracheni sono esplosi come i carabinieri di Nassirya? “Danni
collaterali” li chiamano i comandi, e se non vestono la divisa non si espone
neppure la bandiera. E’ anche per questo che il 12 novembre deve senz’altro
essere un giorno di lutto per la nazione e un monito per le Forze Armate e la
politica che le comanda. Spostando lo sguardo dagli Orizzonti di gloria, peraltro
altrui, all’accantonato articolo undici della Costituzione.
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