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lunedì 30 settembre 2024

Medioriente, i buchi e il ‘nuovo ordine’ di Tel Aviv

 


Definire “ordine” in Medio Oriente lo sfacelo, le distruzioni, i massacri, i lutti, l’angoscia che ne derivano  può appartenere solo al modello perverso con cui Israele ha costruito la sua storia recente. Che non è quella dei molti e sempre più tragici governi a guida Netanyahu, ma la comparsa di uno Stato coloniale e guerrafondaio sostenuto dalla maggioranza d’un popolo che non insegue la pace ma il sopruso. L’attuale gruppo dirigente di Tel Aviv mostra l’abilità di sfruttare a suo vantaggio non solo la protezione statunitense - che è politica e diplomatica, bellica e finanziaria, tecnologica e cibernetica - ma le opportunità offerte da geo-strategie, real-politik, storia politica, storia  delle religioni e delle conseguenti tensioni fra le fedi. Una per tutte, il millenario contrasto fra sunnismo e sciismo, s’è tradotto negli ultimi decenni in tipologie di Stati che mirano all’egemonia regionale, dal versante cultural-teologico a quello economico e geostrategico, comprensivo di alleanze interne alla Umma ed esterne a essa. Arabia Saudita, Turchia, Iran si contendono il ruolo e le dinamiche che coinvolgono alleati più o meno prossimi ai loro disegni. A riaccendere focolai mai spenti sono state le rivolte definite “primavere arabe” contro regimi autoritari, ma soprattutto il profondo solco scavato dalla guerra civile siriana. Trasformata in conflitto generalizzato, comprensivo di progetto jihadista da quello di marca Isis alla guerriglia fondamentalista con tanto di combattentismo ideale e mercenario, di mercenariato di professione mosso da potenze esterne, di eserciti nazionali messi sui campi di battaglia a combattersi o schiacciare forze avverse peraltro cangianti. Nella ‘macelleria umana’ che è stata questa guerra (2011-2018, ma alcuni fronti sono tuttora attivi, con 500.000 vittime, tre milioni di feriti, dodici milioni di sfollati) – dalla quale Israele s’è tenuto decisamente a distanza – Pasdaran e soprattutto Hezbollah hanno scelto d’invischiarsi a lungo e profondamente, con le conseguenze che i sedimentati odi vissuti e trasmessi alle popolazioni coinvolte fra Siria, Libano, Iraq, Turchia kurda s’incrementassero, proprio fra islamici d’ogni tendenza. 

 

Non c’è da stupirsi, dunque, se in Iraq c’è chi festeggia l’uccisione di Nasrallah, seppure per mano dell’aviazione israeliana, né se nei quartieri centrali o settentrionali di Beirut si palesi la soddisfazione per l’azzeramento dei vertici dell’ingombrante Partito di Dio. Nella politica regionale, il premierato bellicista di Netanyahu punta sull’Islam considerato buono (Arabia Saudita, Emirati Arabi, Egitto), utile a sostenere la sua linea di oppressione dei palestinesi, e da lui contrapposto all’Islam definito “terrorista” quello sciita di Teheran, Dahieh, Sana’a sebbene i maggiori finanziamenti del fondamentalismo dell’Isis provengano dalle petromonarchie con cui si sono progettati  i cosiddetti ‘Accordi di Abramo’. Abilissimo l’establishment israeliano ha atteso che gli islamici si scannassero fra loro nel ribattezzato Daesh (ma era accaduto anche in altre epoche e in circostanze diverse), ha tessuto patti con alcuni Paesi arabi per il riconoscimento di Israele (in barba all’irrisolta questione palestinese), ha raso al suolo gran parte dell’abitato della Striscia di Gaza come vendetta per l’attacco di Hamas che aveva ucciso 1.200 kibbutzim ma ha moltiplicato per trentacinque la sua “giusta vendetta”, ammucchiando finora 42.000 cadaveri di gazesi. E pur proseguendo una “rifondazione della Striscia”, riconvertita da prigione a cimitero di persone e cose, ha avviato l’aratura del terreno libanese per seminare i suoi frutti. Magari non dissimili da quelli incentivati durante l’occupazione del Libano nel 1978, col sedicente Esercito del sud del maggiore Haddad, oppure approvando il maquillage di rinascita attuato da Rafiq Hariri, un Libano che tornava a essere la culla di affarismo e corruzione. Versione meno appariscente di quella di trent’anni prima tutta jet-set, dolcevita, attori ed evasori, mafiosi e criminali, comunque funzionale a un quadro geopolitico legato a intrecci assai più sofisticati di quelli conosciuti negli anni Sessanta.

 

Un comune denominatore è sopravvissuto nel tempo su quel territorio: le spie. Assai più coperte di quelle famose e diventate leggenda come Kim Philby - agente britannico di nome, sovietico di fatto - uscito allo scoperto con una donna, l’ebrea Salomon, che lo smascherò e lo bruciò proprio a Beirut nel 1963, facendolo finire comunque dove Philby voleva: nella Mosca comunista, di cui si dichiarava sostenitore. Le spy stories letterarie s’ammantano sempre di un’aria romanzata, ma nelle varie epoche i loro legami con la  realtà politica risultano sempre multisfaccettati  e, come i diamanti, brillano da più lati. La geostrategia del Mossad sta mostrando gli effetti benefici per il governo di Tel Aviv contro alcuni nemici ritenuti più temibili del Movimento di Resistenza Palestinese, appunto Hezbollah e Pasdaran. Il primo finisce decapitato del suo Gotha dirigente militar-politico proprio per opera delle spie. Infiltrate o attivate per corrompere, acquisire, acquistare informazioni e persone come merce in un bazar. Questo dicono tutte le esecuzioni mirate delle scorse settimane e il grande inganno dei cercapersone commissionati a una società creata su misura dall’Intelligence israeliana che prima di far esplodere, uccidere, accecare, mutilare migliaia di cittadini, prossimi a centinaia di attivisti del Partito di Dio, hanno infilato informazioni nei suoi database. Per settimane e mesi, forse anni. Ed è questo il rovesciamento del fronte in uno scontro che Israele sta imponendo e vincendo con la forza d'una spaventosa quantità di denaro messa al servizio di strumenti e personale usati in una battaglia definita difensiva che è invece offensivissima. E attualmente vincente, visto che oltre confine Hezbollah può avere gettato migliaia di razzi, resi inoffensivi dall’ennesimo gioiello della tecnologia: la Cupola di ferro. Missili in ogni caso non paragonabili alle superbombe che disintegrano palazzi e penetrano bunker, come si vede nella Beirut resa in dieci giorni spettrale più di quindici anni di guerra civile.

 

Ma l’impari forza che produce reazioni di facciata e blocca il nemico maggiormente temuto, l’Iran khomeinista, è tutta interna a una Repubblica Islamica dove il khomeinismo è in difficoltà. Sia per i tempi mutati, perché la gioventù combattente, clericale o meno, non è quella che s’immolava sul confine iracheno contro Saddam. Le guerre di trincea non tramontano, ma sono logoranti e per combatterle c’è bisogno di chi mette in conto di potersi sacrificare. Una tipologia di soldati che non esiste quasi più, ovunque, superati dall’iper professionalità ancora una volta tecnologica o dalla professione a pagamento, che dura finché dura. Forse neppure Israele di queste ore, gasato dai successi, sceglierebbe d’infilarsi nello scontro di terra, neppure in Libano, figurarsi in Iran. Nella minuscola Striscia quest’opzione non ha prodotto gli effetti rapidi e sperati. Mentre i reparti d’élite iraniani dedicherebbero la vita a difesa della nazione, ma ancor più del proprio status ed è questo l’altro buco in cui s’insinua da tempo il baco dei servizi israeliani. Entrando nelle crepe del vecchiume del regime degli ayatollah, rappresentato non solo da Ali Khamenei malandato ma tuttora vivente e al comando, ma da quel clero rigidamente schierato col passato khomeinista. Che risultò scaltro e vincente ai tempi delle ideologie, battendo il marxismo ingessato del partito Tudeh e quello pseudorivoluzionario dei Mujaheddin del popolo, ma che ha chiuso i rapporti con la sua gente. Non ha più parlato ai giovani, anziché motivarli li ha repressi, tiene all’angolo le donne, ha paura di ogni novità. E poi reprime, impaurisce, uccide. Sono i limiti d’un sistema asfittico che avvicina nemici vecchi (ex monarchici, mujaheddin) e nuovi, in cui può trovare appoggi chi vuol combattere Guida Suprema e Pasdaran. Non da oggi riformisti e conservatori nella politica interna si fronteggiano, si scontrano, patteggiano. Da decenni il durissimo embargo e la crisi economica creano spaccature ma anche singulti d’orgoglio a difesa della nazione. Eppure la compattezza sembra vacillare fra gli stessi Guardiani della Rivoluzione che hanno subìto l’assassinio di Haniyeh in casa propria e una sequenza di agguati eccellenti (agli ingegneri del nucleare) fin dentro Teheran. Il sospetto è un’ombra che s’allunga su un Paese tutt’altro che granitico, tanto da dover rivalutare le mosse dell’asse resistente opposto da quasi un cinquantennio “all’entità sionista” e all’islam compromesso che dimentica Quds.

sabato 28 settembre 2024

Eliminato Nasrallah, Israele pensa a un suo Libano

 


Il turbante nero ha smesso di arringare. Anche un comunicato di Hezbollah dichiara la morte del proprio leader Hassan Nasrallah, facendo poi sapere che sotto le macerie degli edifici sbriciolati dai missili anti bunker sparati dagli F-16 israeliani, ne è stato individuato il corpo. Difficile recuperare qualunque cosa sotto decine di metri di macerie, ma lo sciismo, come altre fedi, insegue il cadavere per onorarlo. E Tsahal gliene sta fornendo a migliaia, illustri e sconosciuti. Forse il Partito di Dio, che il chierico aveva contribuito a fondare, collocherà la salma nel cimitero dei martiri a Ghobeiry. Un municipio a sé diviso da quello di Beirut, sempre nella cintura sud della capitale, prima di giungere nella iperbersagliata Dahyeh, un tempo roccaforte del gruppo sciita, diventata tutt’altro che sicura. A Ghobeiry c’è tuttora il campo dei rifugiati palestinesi, e la memoria degli anziani, degli scampati dalla strage falangista di 42 anni or sono, riporta alla mente i piani criminali d’Israele che da Stato occupante s’è trasformato in Paese di assassini. Mentre l’aviazione di Tel Aviv praticava l’esecuzione mirata del massimo leader sciita libanese, il premier Netanyahu accusava l’Assemblea delle Nazioni Unite d’essere una “palude antisemita”, rilanciando l’autoassolvente refrain del diritto alla difesa di Israele. Una definizione che non riesce a celare l’inoppugnabile realtà della maschera: Israele uccide personalità e civili definendo difesa i propri massacri, che nessuno può criticare né fermare. Se a porre fine all’esistenza di Nasrallah, di chi gli era accanto o viveva nei pressi di uno dei bunker in cui era costretto a nascondersi sia stato un super ordigno come l’antico Mark 84, introdotto già in Viet-nam, o la più recente Massive Ordnance Penetrator, prodotta da più d’un decennio da Boeing (sei metri per 13.600 kg, di cui 2.400 d’esplosivo) non lo sapremo mai. Oppure sì, nelle macabre divulgazioni con cui gli organi militari si gloriano della forza messa a disposizione di politiche sicarie.

 

Certo è che il Pentagono, pronto a smarcarsi con una dichiarazione di circostanza con cui s’è detto “non informato dell’operazione” è il Convitato di Pietra di quanto Israele,  oggi diretta da Netanyahu, nei decenni scorsi a guida egualmente coloniale e criminale, va compiendo. Israele si permette di minacciare il mondo, deridere i suoi organismi di rappresentanza, triturare accordi sottoscritti, e poi uccidere, uccidere, uccidere chiunque, ovunque, in ogni modo, perché la Casa Bianca lo permette. Così le altre potenze occidentali, non tanto l’insignificante Unione Europea, ma Gran Bretagna e Francia. Chiamata di correo anche per Russia e Cina, vaghe stelle d’un orizzonte rabbuiato e oggi incartate, Mosca con la propria guerra, Pechino col braccio di ferro a distanza con Washington nel Pacifico. Tutto il resto è niente. Né la sopravvivenza di civili, né l’esistenza di rapporti pacifici. Comunque pur senza intervenire, senza dissuadere diplomaticamente “l’unica democrazia mediorientale”, basterebbe non armarla. Anche dei soli arsenali, questi sì di distruzione di massa, che metodicamente il Congresso americano decide di rimpinguare, a tutto vantaggio della boria del ceto politico di Tel Aviv. Che non si serve affatto di tali armi per difendersi. Le usa per sopprimere e opprimere avversari e migliaia di abitanti, diversificando la morte con l’afflizione dei colpiti nella maniera più subdola e vile, come hanno mostrato le recenti esplosioni dei beeper, fornitura di Hezbollah tramutata in strumento di sevizia. Se costoro sono uomini, direbbero ebrei della generazione che ha subìto le persecuzioni… Rimpiazzare un elemento carismatico ed esperto della levatura di Nasrallah sarà improbo. Ma sradicare il pur malandato Partito di Dio e la gente sciita dal sud del Libano diventa improbabile. L’alleato iraniano è a lutto e furente, non impegnato in reazioni sebbene fra le vittime delle esplosioni ci sia l’ennesimo comandante Pasdaran. Ogni mossa resta sospesa a un filo. Per ora Israele vuole strafare, mentre l’attendismo si colora di debolezza. Eppure il vicino Medioriente può sempre infiammarsi ancor più.  

venerdì 27 settembre 2024

Caccia a Nasrallah

 


Punta in alto Netanyahu. Mentre lui interviene al Palazzo dell’Onu - premettendo che non l’aveva in programma, ha cambiato idea davanti alle fake news su Israele e sulla sua politica pronunciate da chi l’aveva preceduto - l’aviazione di Tel Aviv sgancia su un’area residenziale di Dahiyeh devastanti missili anti bunker. I servizi israeliani avevano individuato quel luogo come punto d’incontro di quel che resta dei capi di Hezbollah. Un vertice operativo per decidere se oltre agli attacchi missilistici sulla Galilea settentrionale, e potendo ancora più giù, l’organizzazione militare sciita prendeva contromisure davanti allo stillicidio di bombardamenti cui Beirut, la Bekaa, l’area di Tiro e Sidone sono sottoposti da giorni. Visto che in neppure una settimana le vittime sono 1.600, superiori ai 34 giorni del conflitto del 2006. A quell’appuntamento avrebbe partecipato anche Hassan Nasrallah, dunque colpire sarebbe stata un’occasione da non perdere. Poco prima delle parole d’un baldanzoso Bibi gli F-16 sono decollati mirando al luogo preposto. Lui sapeva e gongolava, sperando nel colpo grosso che tuttora non è chiaro se sia andato a segno. Terminato il discorso - con tante sedie lasciate vuote nel Palazzo di Vetro da chi lo considera un criminale - il primo ministro israeliano è stato reimbarcato dalla sicurezza ed è tornato a gestire la fase di guerra profonda che conduce in Libano. Fino a tarda sera sono circolate solamente voci: il chierico è illeso ed è al sicuro. E’ ferito, ma vivo. Invece è dato per morto il suo vice e cugino, Hashim Safieddine. Ma anche quest’affermazione più che una notizia, non ha certezza. Le fonti del Partito di Dio, ovviamente minimizzano i danni. Parlano di due deceduti e settantasei feriti, civili e abitanti dei residence rasi totalmente al suolo. Vivevano sopra il bunker, il bersaglio cercato e centrato. L’incolumità per il segretario generale del gruppo sciita consisterebbe nel non risiedere più né Dahiyeh, né a Beirut, né in Libano, cosa peraltro possibile. Ma com’è accaduto ad altri nemici d’Israele, freddati da esecuzioni mirate, per azzerare i pericoli occorrerebbe smaterializzarsi. L’uomo in nero non appare in pubblico da anni, conduce un’esistenza celata e dimessa, ma trovarsi fuori dal territorio oggi bersagliato, sarebbe quasi un tradimento per la sua gente e per gli stessi miliziani che lo venerano. La fase è difficilissima per Hezbollah. Colpito come non mai nell’intera scala del nucleo bellico, quasi sicuramente infiltrato dal Mossad che ha realizzato il colpo della fornitura dei beeper manomessi e resi micidialmente esplosivi, esposto a un repentino, defatigante, rischioso rimpiazzo di uomini-guida diventati target a seguire d’una roulette assassina. Il volume di fuoco dai cieli, contro cui né il Partito di Dio né il liquido esercito libanese possono nulla privi come sono di flotta aerea, ha distrutto in questi giorni numerosi depositi di armi. Forse l’organizzazione di terra, se mai dovesse verificarsi l’invasione di Tsahal che alcuni suoi stessi generali vorrebbero evitare, condurrebbe il gruppo di Nasrallah alla disperata difesa di città e villaggi, però ora paiono palesi la sua difficoltà militare e il suo incastro politico. Se gli sciiti libanesi dovessero restare addirittura orfani del padre-padrone di almeno due decenni di direzione, lo sbando sarebbe enorme. Netanyahu punta a questo. Visto che il protettore iraniano rimane fermo e tale vuoto si sente fra le famiglie sciite che fuggono dal sud sciita, il simulacro di patria in uno Stato che non esiste più da tempo, l’ambiente che rappresenta per loro una speranza di futuro. Ma le bombe, i crolli, le vittime - martiri o inconsapevoli - sono lo spettro di chi inizia a pensare che si possa finire come Gaza. E chi ha più di trent’anni e la memoria di quanto accadeva negli anni Ottanta ha una crescente paura. Perché il volume di fuoco è cresciuto, la tecnologia ancor più. Beirut non trova, come a quei tempi, gli edifici crivellati dalle infilate dei mitra, vede cumuli di macerie che diventano tombe, una gigantesca necropoli. Appunto come nella Striscia, prigioni e cimiteri dove Israele ha deciso che non ci dev’essere domani. E che le assise mondiali permettono. 


 

domenica 22 settembre 2024

Beirut, i dottori della luce fra le sadiche sevizie d’Israele

 


Ha pianto il dottor Elias Jaradeh nel vedere cosa aveva sotto gli occhi. Occhi sgusciati, frantumati, prosciugati. Buchi neri su volti insanguinati dalla perfidia di chi vuole lasciare l’indelebile segno d’una violenza studiata e suggellata da orrendo sadismo, definito dai taluni servili cantori del mainstream mediatico: “deterrenza strategica”. Tanti dei bulbi oculari dei miliziani di Hezbollah erano esplosi dietro i beeper dove il Mossad aveva celato microcariche assassine fatte brillare all’unisono. Lui e la sua équipe osservavano sgomenti quegli squarci e su tale disastro hanno dovuto agire. L’esperienza, le qualità professionali di questi oftalmologi libanesi dovevano tamponare la dote tormentatrice dell’Intelligence di Tel Aviv che, col lugubre gesto di occultare la morte o la più lacerante ferita, s’è sentita ancora una volta invincibile. Il successo dei vili ha colpito ignari nemici e incolpevoli civili che gli vivono accanto o li incrociavano casualmente. Così Elias, che è medico e dal 2022 anche deputato per la formazione indipendente Change, confessa d’aver agito in maniera ‘robotica’ per poter continuare a lavorare davanti a tanto orrore. Il dottor Jaradeh conferma quanto le prime confuse informazioni avevano annunciato: i feriti sono in maggioranza civili, magari familiari dei miliziani, ma non esclusivamente loro. “Coi colleghi abbiamo dovuto separare lo sconcerto e la rabbia e immergerci nel dramma perché a essere colpita era gente comune, e per noi un’intera nazione. Si trattava di civili con le loro famiglie, non persone sul campo di battaglia. Ho estratto più occhi lacerati di quanto non avessi fatto in anni di chirurgia oftalmologica”. Gli fanno eco le testimonianze di altri due oculisti intervenuti sui feriti, diffuse su Instagram: 

 

Dice Alaa Bou Ghannam: “Nel nostro centro abbiamo ricevuto circa 200 feriti, il 75% colpiti agli occhi, occhi devastati da frammenti metallici e plastici. Nella mia vita professionale non mi ero mai attivato per un’emergenza simile, soprattutto tanto ampia, né penso sia accaduto ad altri colleghi al mondo. Siamo stati quasi due giorni a suturare la sclera e cucire la cornea di ciascun occhio. Molti dei colpiti resteranno ciechi o monchi di una o due mani”. Per Ama Sadaka: “Fra i feriti agli occhi più della metà ha perso l’occhio sinistro e siamo stati costretti a rimuoverlo, non a curarlo. Tutti i tessuti erano penetrati da frammenti metallici o di plastica oppure erano bruciati e la materia organica che osservavamo era disciolta, comprese le palpebre. La palpebra è essenziale quando si deve intervenire sull’occhio. Un occhio artificiale può sostituire quello perduto ma sarà molto difficile inserire una protesi se manca il sostegno della palpebra. Taluni dei colpiti hanno avuto entrambi gli occhi rimossi”. E ora sentite: “L’esplosione a distanza dei cercapersone di Hezbollah vede l’impiego di una miscela (sic) di Intelligence e alta tecnologia per esercitare deterrenza nei confronti dei singoli combattenti nemici, al fine d’indebolire dal di dentro l’organizzazione paramilitare. Colpire personalmente, nell’arco di poche ore, migliaia di miliziani Hezbollah significa aver messo a segno la più estesa operazione di antiterrorismo finora conosciuta...” E’ questo uno dei passaggi dell’editoriale di Maurizio Molinari, direttore de La Repubblica, (Medio Oriente, come cambia il volto della deterrenza) che per amor di professione non commentiamo. Invitiamo a leggerlo per comprendere quale sia il livello di un giornale – visto che quel quotidiano di tradizione liberal-progressista è tuttora considerato un organo d’informazione – che tradisce il suo ruolo trasformandosi in voce di propaganda. Neppure di uno Stato, bensì d’una sua branca addirittura peggiore del mortifero passato delle sue origini legato ai crimini della banda Stern. 


 

venerdì 20 settembre 2024

Beirut nel mirino, Netanyahu allarga la guerra

 


Pur non volendola Hezbollah dovrà fare la guerra. Guerra totale come nel 2006. L’hanno deciso Israel Defence Forces, Mossad, Netanyahu che gli entrano in casa e li uccidono. Con le micro esplosioni dei giorni scorsi e coi missili che sventrano edifici interi, com’è riaccaduto oggi pomeriggio a Dahieh la roccaforte ormai pluriviolata del Partito di Dio. Disintegrato Ibrahim Aqil, nuovo comandante dei reparti d’élite Radwan del gruppo sciita, che aveva sostituito Fuad Shukr, fatto brillare a luglio scorso. L’ennesima uccisione ‘mirata’ mette sotto le macerie anche dodici civili che abitavano nel palazzo divenuto obiettivo. Una settantina li spedisce in ospedale con ferite anche serie che possono portare alla morte. Aqil era uscito da un nosocomio proprio stamane, ricucendo le lesioni riporte nel giorno della deflagrazione dei beeper usati dai miliziani e manomessi dall’Intelligence di Tel Aviv, un’operazione ancora avvolta nel mistero riguardo alla fase esecutiva e ovviamente non rivendicata, ma con inserimenti nella filiera delle commesse e probabilmente anche dell’organizzazione paramilitare sciita. Fattore che pone scompiglio dal vertice alla base, per comprendere la dimensione di falle e tare, l’arretratezza tecnica al di là dell’arsenale missilistico e i limiti alla sicurezza che s’ingigantiscono nel caos di queste ore successive a giorni di preallarme, tensione e sangue. Che Aqil fosse un bersaglio lo sapeva lui stesso, il Dipartimento gli Stati gli aveva messo sulla testa una taglia da 7 milioni di dollari supponendo fosse uno degli organizzatori dell’attacco all’ambasciata americana di Beirut. Ma erano trascorsi oltre quarant’anni e in tutto questo tempo non era stato né cercato né punito. A esasperare il presente riferendosi al passato ci pensa il premier israeliano per il quale la nuova fase del conflitto mediorientale prevede l’apertura del fronte nord, contro Hezbollah e l’intero Libano. Portare truppe via terra inseguendo una cosiddetta zona di sicurezza - 30-40 km o addirittura sino al fiume Litani come nei tempi andati di chi sognava il grande Israele - è l’alibi non tanto per far tornare gli sfollati del nord nei territori bersagliati dai missili del gruppo sciita, ma per attaccare il più strutturato alleato iraniano nella regione. E con la guerra il governo Netanyahu sogna di sopravvivere. 


 

giovedì 19 settembre 2024

Nasrallah, il rischio della guerra

 


Determinato ma nient’affatto infuocato.  Dopo i due giorni delle micro deflagrazioni assassine che pesano più d’un attacco armato, l’atteso discorso di Nasrallah, il grande capo di Hezbollah, ha solo parzialmente sanato una ferita profondissima fra la sua gente. Oltre a seminare morte con 39 vittime e migliaia di mutilazioni gravi e perenni (in cinquecento hanno perso la vista) i cicalini e walkie-talkie manomessi ed esplosi rappresentano un pesante smacco per l’organizzazione. Il leader sciita lo fa capire, pur dovendo e volendo tranquillizzare una popolazione profondamente scioccata perché percossa in luoghi impensati: il supermarket o il tinello di casa. “Con questo massacro Israele ha superato ogni linea rossa, si tratta d’un atto di guerra”. Ma la guerra va evitata, questo il messaggio non enunciato eppure chiarissimo visto che Nasrallah non ha fatto cenno a iniziative immediate, lasciando cadere nel vuoto il desiderio di vendetta esplicitato, ore prima, dal cugino e vice Hashim Safieddine. Certo, chi ha un piano di reazione, non lo svela in diretta, surriscalda gli animi con la propaganda e colpisce in silenzio. Eppure la generica promessa di “continuare la lotta” è l’unica arma del chierico che guarda più a regolare i conti interni, per raddrizzare una struttura sicuramente infiltrata dal Mossad – come peraltro è accaduto ai Pasdaran iraniani in occasione all’attentato ad Haniyeh – o tradita da qualche suo membro. E’ su tale crepa che il Partito di Dio mostra una debolezza che probabilmente in questa fase lo deve tenere lontano da uno scontro diretto con l’Idf. Pur rafforzato nelle strutture balistiche e nel numero dei miliziani il gruppo sciita non sorprenderebbe Israele come nel luglio-agosto 2006, una guerra lampo come quella oppure una logorante che si perpetua nella Striscia sarebbe una sciagura anche di fronte alla volontà di sacrificio dei motivati miliziani. Pur ripetendo “Il fronte libanese non si fermerà finché l'aggressione a Gaza non sarà terminata" Nasrallah pensa che se ci sarà invasione nel sud del Libano, come Netanyahu vorrebbe per creare la zona cuscinetto sul nord d’Israele, sarebbe complicato controbattere. Per tenere botta con l’odiato rivale gli lancia la sfida "Non sarete in grado di riportare la gente del nord al nord”, riferendosi ai quasi centomila sfollati dalla Galilea sotto la pressione quotidiana dei missili del suo gruppo. Eppure mentre lo ripete in tivù sfiduciati avventori da bar si vedono rombare sulla testa cacciabombardieri con cui Israele continua a intimorire e minacciare. E’ un momento nerissimo per la rete di Hezbollah, più dei chador delle donne che piangono nuovi martiri. Nasrallah dice che gli attacchi non hanno scosso la fede, la convinzione o la preparazione di Hezbollah "Al contrario, questo ci ha reso più risoluti, più robusti e più irremovibili". Sarà. Ma il clima è plumbeo e quello interno al gruppo è pieno di sospetti.

mercoledì 18 settembre 2024

Mini esplosioni omicide in Libano e Siria, funambolico e spietato Mossad



A Taiwan Gold Apollo fa tanto, quasi tutto, dai chip avanzati per iPhone a componenti meccaniche come le viti per i motori, non realizza più ‘cercapersone’ tecnologia anziana, merce degli anni Ottanta. Quel che circola sotto il suo marchio lo fa produrre al partner ungherese Bac Consuting Kft s’è affrettato a dichiarare il presidente dell’azienda di Taipei Hsu Ching-Kuan, visto lo scompiglio internazionale che l’esplosione di migliaia di modellini AR-924 in dotazione ai miliziani di Hezbollah ha causato in Libano e Siria, con rispettivi 12 e 7 morti, 4.000 feriti, molti dei quali civili, e tante persone in pericolo di vita o destinate a gravi menomazioni. Costoro, maneggiando o conservando l’aggeggio, non immaginavano di diventare un bersaglio. La spettacolarmente criminale operazione porta un marchio non dichiarato: Mossad, l’agenzia d’Intelligence di Tel Aviv i cui adepti trascorrono l’esistenza a troncare l’esistenza altrui. I loro target sono nemici anche quando hanno otto anni come la bambina fulminata nella roccaforte del Partito di Dio mentre passava l’oggetto trillante al papà. Lui era un aderente al gruppo sciita e tanto è bastato per vedere morire la figlia sotto gli occhi. Tutto “ammissibile” - secondo una dichiarazione del Dipartimento di Stato americano - che considera i membri di quella componente libanese “un obiettivo legittimo”. Rischioso è stargli accanto nel quotidiano, com’è accaduto agli inquilini dell’edificio di Dahieh, cintura meridionale di Beirut, esplosi il 30 luglio scorso assieme a Fuad Shukr, il vice di Nasrallah. Difficile conoscere gli sviluppi del sabotaggio, per certo si sa che il “materiale” era giunto nella capitale libanese cinque mesi or sono. Si può congetturare che le mini ma micidiali cariche esplosive siano state collocate in loco in magazzini poco controllati, come all’epoca della deflagrazione nel porto. Oppure siano state predisposte nella fabbrica ungherese da agenti infiltrati fra gli addetti alla produzione o dallo stesso personale di Bac Consulting ‘comprato’ e addestrato per la bisogna. Ma questa fabbrica non esiste hanno fatto sapere dalla Bac perciò il mistero di produzione e manomissione permane. Gli esperti dicono che lo scoppio in simultanea fra Beirut, la Beka, il territorio siriano è stato un innesco da remoto, non un cyber attacco. E’ il passaggio a quest’attrezzatura di vetusta tecnologia elettronica, che nelle disposizioni di autotutela doveva preservare i miliziani da intercettazioni di telefoni cellulari e dunque da attentati con missili e droni, ad essersi trasformata in una trappola per Hezbollah. Agenti esterni o infiltrati hanno captato la notizia della commessa e da lì è stato predisposto il piano di sabotaggio. Un lavoro in grande stile, come il danaroso e specializzato apparato del Mossad sa e può fare. Indubbiamente l’iniziativa rappresenta l’ennesimo smacco alla sicurezza sciita - libanese e iraniana - che porta a livelli sempre più tecnologici e articolati il conflitto in atto. La guerra del presente e del futuro non ha attimi e luoghi di tregua. Impegna di giorno e di notte, nella veglia e nel sonno i soggetti coinvolti: militari, miliziani, parenti, amici, chi vive accanto e chi per qualsiasi motivo s’avvicina all’obiettivo. E’ ovviamente guerra psicologica, volta a destabilizzare l’individuo che non ha case, bunker, tunnel, tane né apparecchiature e armi per sentirsi sicuro. Chi domina la tecnologia s’avvantaggia, però non comanda in assoluto. Il nemico dev’essere annientato, in toto. Se un solo soldato, miliziano e bambino restano in vita, possono organizzarsi per la rivalsa. Talvolta intimorire è più controproducente dello sterminare. Gli uomini della guerra lo sanno, i politici che si servono di loro pure. Netanyahu ha scelto lo scontro a ogni livello, Nashrallah parlerà domani. 


 

martedì 17 settembre 2024

Vota Saïed, il carceriere anti migrazione

 


Il presidente, da molti odiato e amato dalla sua cerchia, ci riprova. Visto il contorno continuerà a piegare la Tunisia al proprio volere. Il prossimo 6 ottobre Kaïs Saïed potrà essere rieletto, forte del voto del ceto affaristico, legato al business del turismo e della manifattura, oltreché dell’industria dei fosfati di Gafsa che smercia da Sfax, il porto dei disperati della migrazione. Sono i due volti del Paese che Saïed diceva di voler mettere in ordine, ma i conti nazionali non lo sono e l’unica norma, a cui lui tiene molto, è quella securitaria. In realtà il presidente, noto col nomignolo di Robocop per gli occhi di ghiaccio e il piglio autoritario, ha sponsor politici quotati e solventi. Fuori dai confini nazionali, certo, e non saranno avversari come il magnate Karoui o l’anziano islamista Ghannouchi già in passato finiti galera, a sbarrargli il passo. A consolidargli il consenso c’è poi l’apparato armato, polizia ed esercito, gente che ha lavoro assicurato in una società dove lo stipendio mensile medio oscilla sui duecento euro, ma troppi arrangiano la giornata contando solo sul prezzo calmierato della baguette. Soggetti frustrati i poliziotti, che come ai tempi del misero Bouazizi estorcono denaro ai non protetti e vessano per il gusto di opprimere. Del resto la svolta autoritaria del vertice dello Stato ne copre quasi ogni nefandezza, visto che Ong e avvocati dei diritti sono sempre più soffocati e marchiati come oppositori di chi non si sa, visto che chi comanda non ha neppure un colore politico. Il presidente s’è presentato come la soluzione super partes a un sistema che non si sapeva gestire. Un tecnico, dunque, che ha trovato gli sponsor nei dirimpettai mediterranei dell’Unione Europea e un modello a portata di longitudine orientale, nell’Egitto carcerario di Sisi. Saïed non indossa uniformi ma il formale abito maschile con giacca e cravatta di circostanza, un aspetto acquisito da tempo anche dall’omologo egiziano. L’imitazione e l’interesse del governo di Tunisi ai costumi del Cairo per tener buoni i concittadini, blandendoli col consolidato populismo dei prezzi calmierati per pane e benzina, riguardano il passaggio dalla carezza al pugno e al pugno di ferro e se non basta ai cavi elettrici della tortura. Così chi non vuol comprendere, capisce.

 

Dal luglio di tre or sono, quando mister Robocop azzerò l’esecutivo in carica, sciolse il Parlamento, smantellò il Consiglio Superiore della Magistratura per giungere nel 2022 a una nuova Costituzione presidenzialista e autoritaria, l’aria che respirano i tunisini è mefitica. Viziata non da una semplice gestione amministrativa e neppure da un potere politico, ma dalla volontà di dominio sulla nazione e i suoi abitanti. Oggi in diversi angoli del mondo i cittadini sono tornati sudditi, a Tunisi e dintorni per un non nulla finiscono in galera e se contestano l’autorità possono marcirci. C’è un preciso disegno nel voler trasformare la locale Bouchoucha nella prigione di Tora. E’ il modello Sisi che paga in termini di obbedienza perché vivere col terrore e nel terrore produce i frutti della sottomissione incondizionata. Il contorno è mascherato dalle indubbie bellezze dei luoghi, e noi andiamo a visitare il Museo del Bardo e le rovine di Cartagine, come una dozzina d’anni addietro il Museo Egizio e le Piramidi di Giza avevano il pubblico che meritano, mentre d’intorno i mukhabarat seminavano morte fra gli oppositori  locali, i ficcanaso stranieri alla Regeni, gli idealisti non tutti  ‘privilegiati’ come Zaki. Questi signori della repressione interna diventano gli interlocutori di affari d’ogni sorta per i partner internazionali, il presidente tunisino lo è per i creatori di barriere, più o meno visibili, della civile Fortezza Europa schierata contro ogni migrazione illegale o legalizzabile. Non è un caso che i più ostili, furbi e mascherati fra i premier in carica al di qua del Mediterraneo (in testa l’italiana Meloni e l’inamovibile Von der Layen), abbiano allargato le braccia verso mister Robocop che è pur sempre il presidente d’un Paese antico e amico. Magari colonizzato, ma la polvere del passato va messa sotto i tappeti della Storia. 

 

E allora si patteggia la cifra. Il “Memorandum d’intesa per un partenariato strategico fra Unione Europea e Tunisia” sottoscritto nel luglio 2023 per rafforzare la cooperazione economica e commerciale e molto altro offre 1,15 miliardi di euro al Paese maghrebino, che unito ai sostegni europei degli ultimi dodici anni porta l’aiuto a 4,7 miliardi di euro. Anche una parte degli impegni precedenti trattavano questioni relative ad agricoltura, trasporti, energia (quanti denari siano stati effettivamente spesi fa parte dei soliti misteri della politica, all’epoca extra Saïed) comunque dal luglio scorso è tutto molto dettagliato, e come va di moda nelle documentazioni, aggettivato col sostenibile. Nel protocollo si leggono: approvvigionamento idrico e gestione acque (piovane, irrigue, reflue) sostenibili; gestione dei rifiuti pubblica e privata sostenibile con bassa emissione di carbonio; piani congiunti per la digitalizzazione di alcune aree nazionali (c’è il progetto Medusa col cavo subacqueo); investimenti con la partecipazione dell’imprenditorialità comunitaria; transizione energetica ‘verde’; trasporto aereo a beneficio di turismo e connettività; migrazione e mobilità. Su quest’ultimo punto, altamente sensibile per tutti i membri Ue, il protocollo afferma che “… le parti convengono di promuovere lo sviluppo sostenibile nelle zone svantaggiate ad alto potenziale migratorio sostenendo l'emancipazione e l'occupazione dei tunisini in situazioni vulnerabili, in particolare attraverso il sostegno alla formazione professionale, l'occupazione e il settore privato. Le due parti condividono le priorità della lotta contro la migrazione irregolare per evitare perdite di vite umane e sviluppare vie legali per l'immigrazione…”. A tale voce corrispondono 105 milioni di euro aumentati fino a 147 che dovrebbero essere investiti in centri d’accoglienza, ma di cui sfuggono i contorni e l’utilizzo. Invece, dopo la razzistica caccia all’uomo di subsahariani tollerata dalle autorità avvenuta a ridosso del memorandum, sono aumentate pressione e repressione governative sulle Ong che s’occupano del problema e giù arresti di operatori umanitari, sgombri di centri per rifugiati, violenze e deportazioni verso i confini algerini e libici. L’amico Robocop scelto dalla Ue come uno dei Capi di Stato che risolvono il “guaio migranti”, mantiene la parola a modo suo. C’è da vedere come proseguirà con un nuovo mandato.

mercoledì 11 settembre 2024

Banca Mondiale, sguardo benevolo sull’Emirato afghano

 


Un rapporto della Banca Mondiale sull’attuale situazione dell’economia afghana quasi promuove l’emirato talebano rispetto alla nazione guidata da un elemento che proprio l’agenzia specializzata dell’Onu aveva formato: Ashraf Ghani. In virtù di tale orientamento un altro palazzo di Washington - la Casa Bianca - spinse Ghani verso la presidenza, visto che l’epoca del clan Karzai si concludeva sotto l’effetto di intrighi personali e familiari (scandalo della  Kabul Bank e morte violenta d’un fratello narcotrafficante protetto dalla Cia). Correva il 2014 e per la cronaca il percorso presidenziale di Ghani fu travagliato. Sebbene il suo ceppo tribale, gli Ahmadzai, avessero il benestare di altri clan pashtun, il rivale Abdullah Abdullah - padre pashtun, madre tajika - alla prima elezione gli diede filo da torcere, calamitando le preferenze dell’etnìa tajika alla quale apparteneva un Signore della Guerra considerato un eroe nazionale: Ahmed Massud. Ghani, nonostante il pedigree griffato Banca Mondiale e il benestare di Obama, trovò difficoltà nel praticare quella modernizzazione del Paese a suon di progetti pubblici e privati (dal Qosh Tepa Canal al gasdotto Tapi), alcuni proseguiti dopo il suo abbandono, altri congelati per interferenze internazionali. Forse per iper realismo, forse per disperazione nell’ultima fase della sua seconda presidenza Ghani cercò un contatto diretto coi turbanti, anche perché gli Stati Uniti brigavano per la propria ‘exit strategy’, ma il Gotha talebano lo snobbò. Loro trattavano coi suoi padroni, non tanto la Banca Mondiale quanto lo Stato Maggiore e la presidenza statunitensi; al “fantoccio di Kabul” non riconoscevano nulla. Gli concessero solo una precipitosa fuga dall’Arg, nel quale loro s’insediavano. Lui volò prima in Uzbekistan poi negli Emirati Arabi. E mentre in un video preregistrato spiegava i motivi di quella scelta “… non volevo dare ai taliban la soddisfazione di umiliare un presidente afghano”, venivano rivelati alcuni aspetti del fulmineo addio: un set di valigie della dimensione d’un divano in cui aveva stipato milioni di dollari. Accaparramenti forse superiori a quelli del predecessore-usurpatore. Con simili premesse non ci sarebbe da stupirsi se l’economia interna, che pure sotto la spinta dell’embargo occidentale tuttora in atto ha conosciuto una fase di travaglio per l’intero 2022, mostri un orizzonte piatto. 

 

Eppure scrive la Banca Mondiale: nonostante la mancanza di domanda di beni e servizi nei settori pubblico e privato, sebbene i consumatori si mostrino riluttanti verso gli acquisti in previsione di ulteriori cali di prezzi (nel primo anno di governo l’Emirato aveva imposto una riduzione del costo dei generi alimentari per limitare la sottonutrizione della popolazione) si registrano opportunità di lavoro per centinaia di migliaia di persone nel settore minerario, agricolo, infrastrutturale, artigianale, puntando anche sull’occupazione casalinga. Quest’ultima, nel caso di filati e tessuti coinvolge la manodopera femminile, bloccata all’esterno dalle famigerate norme restrittive della ‘legge islamica’, ma operativa fra le pareti domestiche. Così i dati dell’esportazione a fine 2022 con 1,9 miliardi di dollari risultavano ben superiori al quinquennio 2016-21 (0,8 miliardi). L’aumento ha riguardato i settori alimentare e tessile, mentre l’esportazione di carbone registrava un calo, tutti i flussi commerciali erano rivolti principalmente al Pakistan. Ovviamente la cessazione delle ostilità ha favorito un rilancio della produzione agricola in varie province e l’intento di taluni ministeri sensibili in materia di sicurezza, pur tollerando e coprendo l’andirivieni di talebani pakistani in conflitto col proprio governo, ha cercato d’imporre ai ‘fratelli di fede politica’ un comportamento che non inficiasse le relazioni mercantili con Islamabad. Se da una parte nel 2023, e anche nell’anno in corso, le importazioni e le necessità afghane risultano elevate a seguito della cospicua diminuzione degli aiuti umanitari (che a fine 2021 avevano creato un’emergenza per la sopravvivenza di milioni di cittadini), dall’altra le autorità mantengono  uno stretto controllo sulla fuga di capitali, prevenendo il contrabbando di dollari, davanti alle difficoltà interne di coniare nuova moneta che porta a sopravvalutare l’afghani. Altra nota favorevole: dal marzo 2023 al marzo 2024 il servizio preposto alle entrate fiscali è aumentato del 9%, grazie a ciò risultano aumentati i salari d’un tipo d’occupazione statale ancora assai diffusa, quella della sicurezza fornita da polizia, esercito, Intelligence. 

 

Dopo l’encomio la Banca Mondiale lancia un allarme: questo modello di spesa risulta insostenibile, serve al governo ma non genera proventi, un andamento ben conosciuto dalle presidenze del periodo pre-talebano sulle quali piovevano una quantità spropositata di miliardi dirottati in gran parte sulla sicurezza. Si suggerisce un cambio di passo, sebbene così facciano tutti a Ovest e a Est. Riprende fiato - e denaro - poiché i turbanti non l’hanno lasciato cadere, il progetto del canale Qosh Tepa, che deviando le acque del fiume Amu Darya può irrigare vasti terreni agricoli. Uzbekistan e Turkmenistan, che finora usavano una buona fetta della portata idrica dell’Amu Darya e che dovrebbero rinunciare all’esclusiva, non hanno finora contrastato la ripresa dei lavori stimati attorno ai 70 milioni di dollari. Rispetto al ventennio 2001-2021 privo di opere pubbliche, l’iniziativa diventa un fiore all’occhiello dell’Emirato, tanto da pompare una propaganda che dice: meno fondi rispetto all’epoca della ‘Repubblica democratica’ ma molti investimenti su sicurezza e servizi. Lo conferma anche Washington. Su un particolare prodotto degli altopiani afghani, il papavero da oppio, bisognerà vedere se prevarrà la stretta ideologica dei tempi del mullah Omar che ne vietava la coltivazione o il compromesso con un mercato che ovunque nel mondo fa salire la richiesta. Per tutto il 2022 e 2023 il governo ha vietato la semina, gli agricoltori e le casse statali hanno perso 1,3 miliardi di dollari di entrate. Gli esperti del settore ricordano che dopo la lavorazione la pasta di oppio si conserva egregiamente, dunque chi aveva scorte dei raccolti precedenti al nuovo corso governativo li ha immessi sul mercato. I rapporti degli anni passati - non solo della Banca Mondiale, ma dell’agenzia anti droga dell’Onu (Unodc) – rammentano come almeno il 15% del Pil afghano derivava dalla produzione e commercio di oppiacei, per qualsiasi governo è difficile rinunciare a queste entrate. Insomma nella ‘quasi promozione’ che l’istituzione di Washington fa della gestione economica di Akhundzada e soci c’è la considerazione che un riconoscimento internazionale dell’Emirato, lo stop alle sanzioni, lo svincolo delle transazioni bancarie, un ripristino di aiuti umanitari in cambio della fine di restrizioni su lavoro e istruzione per le donne e un forte ridimensionamento di spesa per esercito e polizia incrementerebbero ulteriormente la salute economica afghana. Proprio così. Alla Banca Mondiale basta questo.

giovedì 5 settembre 2024

Sisi-Erdoğan, tempo di abbracci

 


Stretti come non mai, non solo nel caloroso saluto all’aeroporto di Ankara, i presidenti egiziano Al Sisi e turco Erdoğan si sono rivisti dopo l’apertura fra i due Paesi sancita dalla visita al Cairo dello scorso febbraio che già cancellava dodici anni di polemiche e ghigni ostili. In mezzo la fase delle “primavere arabe”, la loro repressione che ha visto la lobby militare egiziana imporre un proprio uomo, cancellando nel sangue la parentesi della presidenza Morsi, con l’aggiunta della persecuzione della Fratellanza Musulmana e d’ogni raggruppamento politico interno. Erdoğan, che in un primo periodo aveva tuonato contro la sopraffazione subìta dai militanti islamici e chiuso i rapporti con la grande nazione araba, ha nel tempo modulato gli orientamenti esteri. Dal fronte siriano, che lo contrapponeva ad Asad appoggiando i rivoltosi islamisti, compresi gruppi jihadisti pro Isis, a quello libico dove fra truppe regolari e mercenarie l’appoggio alle bande interne ha visto un’altalena di competizione-accordo-concorrenza riguardo a conflitti e alleanze con le strategie estere di Putin. La linea turca cerca di non mollare l’influenza nel Mediterraneo orientale e nel vicino Medioriente, dove la recente guerra di Gaza che coinvolge il sud del Libano ha prepotentemente rimesso al centro la forza regionale iraniana. Sisi, dopo aver consolidato con uccisioni-sparizioni-carcerazioni il controllo interno, s’è proposto fuori di casa come guardiano dell’infuocata area attorno alla Striscia. E’ stato accontentato dall’Occidente aderendo al blocco autoritario regionale che ha nei progetti sauditi ed emiratini - progetti a 360° compresi quelli securitari e militari - un perno utile alla linea di controllo anti iraniana. Nel gioco delle parti fluttuante e dinamico, la Turchia, erdoğaniana e bahçeliana, senza voltare le spalle alla Nato cerca di far sopravvivere  un’alleanza di governo, offrendo l’immagine d’una nazione potente che piace alla maggioranza dei concittadini. Dunque, meno ideologia e più sostanza. Che per le strettoie economiche vissute nell’ultimo triennio, fra formule anti inflazione eterodosse su cui s’è incaponito il presidente, ha necessità di ripresa. Negli ossequi e sorrisi di circostanza dei leader ci sono accordi commerciali, investimenti energetici (attorno al giacimento Zohr), i sempre presenti armamenti (i droni da guerra Bayraktar) e nuove rotte di trasporti e turismo. Piccoli fiati se si guarda la macro economia, ma ai due sta bene così, per passare dai dieci ai quindici miliardi di dollari d’affari nel prossimo quinquennio. Augurandosi lunga vita biologica e politica. Fra l’altro, visto che tutto scorre e cambia, se mai ne dovesse avere bisogno Erdoğan riceverà i buoni uffici dell’omologo egiziano per inserirsi nell’assise dei Brics, che all’iniziale adesione del 2009 di Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, da cui l’acronimo, ha visto aggiungersi Egitto, Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Etiopia. Proprio così: quel che la geopolitica blocca, la geoeconomia sdogana. Mentre il fronte europeo e il suo membro più illustre, la Germania, che si lecca ferite economiche e d’instabilità elettorale, possono meditare sui grandi rifiuti posti per oltre un decennio da Angela Merkel,  e di recente dai suoi epigoni, all’ingresso turco nella Ue.    

martedì 3 settembre 2024

L’altro Israele impotente e connivente

 


Nella meticolosa e reiterata cronaca sul malessere di centinaia, migliaia, decine di migliaia e forse più israeliani verso il governo Netanyahu, la stampa liberal di quel Paese e di ulteriori sponde, ripropone l’immagine dell’altro Israele che s’oppone all’uomo dal ghigno e dal muscolo sempre tesi un po’ contro tutti: i palestinesi considerati terroristi, gli americani tutori inaffidabili, certi alleati e ministri di casa, parecchi concittadini. L’attuale Primo Ministro, che dal 1996 di esecutivi ne ha inanellati ben sei, viaggia sul vento elettorale che vede il suo partito (Likud) vincere e rivincere consultazioni e formare alleanze governative sempre più feroci e oltranziste a braccetto delle componenti più retrive della Knesset. Del resto talune forze un tempo vicine all’ineffabile Bibi, come Israel Beitenu del moldavo Lieberman - suo pluriministro di Esteri, Difesa, Trasporti, Infrastrutture, Affari Strategici - fra le proprie strategie meditavano ed esplicitavano quella ‘pulizia etnica’ verso la componente araba della regione, dentro e fuori Israele. Con tale disegno parecchie figure politiche, militari e anche intellettuali concordano. Però chi osa definire razzista quel progetto riceve immediatamente il marchio di antisemita, come peraltro accade a qualsiasi critica rivolta a Israele. Indubbiamente nello Stato ebraico che la maggioranza vuole per i soli ebrei, esistono voci di dissenso, contro Netanyahu, contro il Likud e magari contro l’operato dell’Idf e del Mossad, ma sono voci della strada, senza responsabilità né eco politiche. 

 

Fra esse le grida più roboanti e disperate in questi mesi sono quelle dei parenti dei prigionieri in mano a Hamas sulla cui sorte pesano gli accordi di scambio che solo in rarissimi caso hanno raggiunto il buon fine della liberazione. Queste persone urlano e denunciano le nefandezze del premier, riempiono le vie di Tel Aviv, ricevono solidarietà per il tormento dei propri cari, recriminano sull’insensibilità del primo cittadino d’Israele, chiedendo la liberazione di fratelli e sorelle ostaggi d’un tragico braccio di ferro. Quasi mai allungano lo sguardo sulla strage che il proprio Stato compie sui due milioni di ostaggi inermi che abitano la Striscia. Tale paradosso è l’immagine di Israele. Anche chi contesta il governo in carica lo fa per interessi diretti: per i parenti che rischiano la vita o per il pericolo corso dalla giustizia piegata a interessi politici, nel caso della riforma proposta nei mesi scorsi. Quasi nessuno ha criticato la linea incarnata anno dopo anno, decennio dopo decennio da ciascuno dei trentasette governi di Tel Aviv sulla questione palestinese, che significa spoliazione dei diritti d’un altro popolo fino alla sua totale oppressione. E’ storia conosciuta anche dai bambini, perché coinvolge soprattutto bambini. Espulsi coi genitori da terra e case, soggiogati, umiliati, straziati con massacri che tanto somigliano ai pogrom che la Storia ebraica giustamente addita e non vuol dimenticare. Fra i bambini d’un tempo ci saranno stati Haniyeh e Sinwar, diventati combattenti (terroristi per la stampa mainstream) in funzione del passato che hanno conosciuto. 

 

Eppure il doppio binario e la doppia morale non albergano solo nelle strategie dell’Israele di governo, e in tal senso destra e sinistra non hanno differenze se si pensa da dove venivano Golda Meir e Moshe Dayan fino a Rabin e chi l’ha seguìto, oggi che il laburismo interno è ridotto al 3% dell’urna. E’ il medesimo altro Israele che polemizza con Israele a non sapere come smontare le mostruosità costruite in cent’anni e più di sionismo, e ora anche di sionismo religioso, e militarismo, colonialismo, discriminazione razziale, fondamentalismo confessionale, aberrazioni sulle quali molti contestatori di Netanyahu soprassiedono guardando altrove. In questa fase guardano sgomenti i propri morti, gli ultimi arrivati con le feroci esecuzioni di Hamas che risponde col terrore al terrore diffuso dal nemico. In questa spirale l’altro Israele annaspa due volte. La prima, perché non riesce a imporre nulla all’Israele maggioritario che offre a fanatici come Ben-Gvir leve di comando sulla Sicurezza nazionale, che istituzionalizza un ministero per insediamenti che il mondo considera illegali. La seconda, perché a piangere il giovane Hersh, giungono a frotte di amici dell’area meridionale di Gerusalemme dove il ragazzo, descritto dalla mamma come “gentile, paziente, curioso”, viveva. Animo nobile ma come altri impotente. Lui non conoscerà Givat Shaked, la nuova colonia che s’appresta a soffocare Beit Safafa, l’ultima delle trecento dove Israele toglie aria e vita ai palestinesi di Cisgiordania. I suoi familiari e amici a lutto, avranno sotto gli occhi l’ennesima infamia, ma ricorderanno solo quella inflitta al proprio caro. E i racconti di morte e sopravvivenza conosceranno sempre un’unica ragione, la propria. Sostituendo fra loro i Netanyahu.