L’inquietante e sanguinaria operatività
dell’Isis Khorasan passibile, come tutte le organizzazioni para clandestine,
d’infiltrazioni e strumentalizzazioni ha conosciuto due momenti: la fase
precedente alla pandemia da Covid 19 e quella successiva. Non che i miliziani e
i nuovi adepti si siano concentrati sulla prevenzione dai contagi, certo è che
fra il 2020 e il 2021 la movimentazione di persone attraverso i confini
nazionali, almeno quella costretta a transitare per porti e aeroporti, risultava
bloccata o sensibilmente ridotta e questo ha prodotto un limite a una certa
tipologia di attacchi. E’ vero che molte località dove operano i jihadisti sono
aree orientali disastrate politicamente e spesso anche militarmente che non si
sono interessate granché alla limitazione degli spostamenti e hanno potuto registrare
ogni sorta di scorreria. Ma è nel 2022 che l’attenzione delle maggiori agenzie
d’Intelligence riscontra una rilanciata operatività, sino ai sensazionali
attacchi di cui si sono occupati i media mondiali come per il Crocus City Hall di
Krasnogorsk alle porte di Mosca. Deflagrante, non solo per l’esplosivo usato,
era stata anche la strage di Kerman a inizio anno, eppure l’informazione mainstream
non andava al di là della cronaca, e alla propagandistica di certo Occidente che
considerava quel grosso attentato un “regolamento
di conti fra terrorismi”, rilanciando
l’equivalenza fra jihadismo e Stato iraniano. Come si sa quest’ultimo - e come
la Russia, recente obiettivo del Daesh del Khorasan - hanno combattuto
l’organizzazione fondamentalista islamica sul territorio siriano, certo secondo
proprie logiche geopolitiche volte ad assecondare il regime di Asad, un’entità
statale legittimata col terrore. Però quello è lo scacchiere in cui, dal 2014
al 2019, si sono mossi regimi e satrapi, imperialismi, coalizioni, eserciti nazionali
e mercenari di varie sponde, dopo la grande depressione creata in tutto il
Medio Oriente da vari interventi stranieri. L’operazione Enduring Freedom (2001) voluta dal presidente statunitense George
W. Bush, la seconda guerra del Golfo (2003) sponsorizzata dal premier
britannico Tony Blair, passando per l’intervento internazionale in Libia (2011)
agognato dal presidente francese Nicolas Sarkozy. Insensate sciagure
geopolitiche, oltre che inutili bagni di sangue specie di civili: oltre mezzo
milione di morti nelle tre tappe.
Se si elucubra su chi organizza
l’odierno terrorismo globale, spesso si dimentica l’effetto rimbalzo a talune
cause d’impronta bellica, economico-finanziaria e di supremazia geopolitica tuttora
imposte dalle democrazie occidentali. L’imperialismo è vivo e vegeto, con lui
il colonialismo di ritorno e nella partita mondiale i protagonisti sono
aumentati rispetto al sistema imposto un secolo fa dall‘Accordo Sykes-Picot. Tutto
ciò che era stato digerito e dimenticato fra le due Guerre Mondiali e la
successiva Guerra Fredda è riapparso alle soglie del nuovo millennio anche a
seguìto delle scelte vecchie e nuove. Discorrere del Khorasan, che i
nutrizionisti riferiscono al grano turanicum,
ricco di fibre, significa culturalmente richiamare l’antica regione persiana
“dove origina il sole”. E se nell’attuale Iran una provincia ha mantenuto fino
a vent’anni addietro questo nome (ora è nota come Razavi Khorasan) specchiandosi
nella città santa di Mashhad, era indicata come Grande Khorasan un’enorme area
geografica che comprendeva quasi tutto l’odierno Afghanistan, parte degli
attuali Turkmenistan, Uzbekistan e Tajikistan, tacciati nel Novecento come
Repubbliche sovietiche ma in altre epoche territori appartenuti a greci, arabi,
selgiuchidi, safavidi. Insomma nel Khorasan c’è passato un pezzo della Storia
mediorientale e gli attuali miliziani che lo richiamano come denominazione d’un
ipotetico califfato cercano di rievocare storicamente quanto di antistorico c’è
nel loro programma. Quel che ha mostrato lo Stato Islamico nella prima fase
della sua comparsa sul territorio siro-iracheno - per un buon periodo ampio più
di 90.000 kmq - è stata propaganda sanguinaria, condita da un competente utilizzo
della tecnologia e della tecnica di divulgazione, addirittura definita da
taluni politologi “orwelliana”. Esperti di cinematografia notavano una
meticolosa padronanza nel confezionare vere pellicole hollywoodiane con
grafica, ritmo, alternanza di scenografie aggressive e discorsive per lanciare il
proprio messaggio bellicistico, atto a diffondere paura e terrore. Gli
scivolava accanto, sempre tramite filmati propagandistici, la visione utopica
del proprio governo nel Califfato con cittadini sereni in mercati ricolmi di
cibo e di una vita tranquilla sicuramente mai conosciuta, perché fra Raqqa e
Mosul l’ampia coalizione anti Isis già nel 2015 lanciava attacchi di terra e
bombardamenti dal cielo.
Eppure ben prima della disfatta e della
ritirata da diverse zone di quel territorio, l’Isis marchiato Khorasan pensava
a trovare spazi proprio in Afghanistan dove la guerriglia talebana metteva da
anni alle strette le truppe Nato della Missione
Isaf e l’esercito locale organizzato e addestrato dagli Stati Uniti. L’Isis-K
(o Iskp) si faceva forte del reclutamento del Movimento Islamico dell’Uzbekistan,
fondato nel 1991 dall’uzbeko Tahir Yuldashev e vicino ai talebani fino alla
morte del mullah Omar, ma poi entrato in contrasto con loro giudicati
“nazionalisti deviati”. Taliban e Isis-K ingaggiarono fra il 2016 e il 2018 un
confronto a distanza a suon di auto e camion-bomba, colpendo obiettivi governativi,
caserme, ambasciate, hotel, aeroporti, università, moschee (esclusivamente
sciite), piazze e mercati dove poveri civili finivano straziati. Lo facevano
per attribuirsi il primato dell’agguato più cruento, del colpo più audace, del
controllo più stretto di un territorio che l’ufficialità del presidente Ghani
non riusciva a gestire. Fu un periodo di cieca violenza diffusa in diverse
città che riportava alla mente l’insicurezza esistenziale seconda solo alla
guerra civile dei primi anni Novanta, peraltro concentrata nella capitale, il
cui controllo costituiva il fine primario di ogni Signore della Guerra impegnato
sul campo. Ingrossavano le fila del gruppo jihadista che si firmava Khorasan
diversi talebani in dissidio con la Shura di Quetta, rimasta fedele ai princìpi
del fondatore mullah Omar. Mentre i dissapori, e non solo per la sua
successione, erano in atto anche prima della sua definitiva dipartita, avvenuta
nel 2013 (era da tempo affetto da tubercolosi) e ufficializzata solo due anni
dopo. C’erano alcuni turbanti che guardavano più alla visione transnazionale di
Qaeda, cui s’ispira l’Isis, che allo statalismo dei talebani afghani. In
aggiunta clan doppiogiochisti particolarmente potenti e agguerriti, come quello
Haqqani, brigavano per ostacolare le nuove leadership talebane - Mansour,
Baradar, Akhundzada - e in queste crepe reclutavano nuovi adepti. Fra cui ex
Tehreek-i Taliban pakistani guidati dal gruppo tribale Orakzai che sconfinando si
collocarono nelle province di Nangarhar, Kunar, Kunduz, Kabul. Di fatto
l’Isis-K e i taliban afghani se non possono considerarsi fratelli sono parenti,
formatisi nelle stesse strutture, ma dal 2014 i primi sono fuoriusciti dai
ranghi dando vita alla nuova aggregazione. Fra l’altro le etnìe tajika e uzbeka,
considerate di origine turca e minoritarie rispetto a quella pashtun
incardinata fra la base logistica di Kandahar e quella ideologico-religiosa di
Quetta, costituiscono stirpi che
rivendicano propri spazi di fronte al rigido centralismo del gruppo sunnita
hanafita.
Dopo la riconquista del potere da parte
talebana (agosto 2021) e l’annuncio dell’Emirato afghano, gli Haqqani si sono ben
accasati spartendo col Gotha ortodosso alcuni dicasteri: Sirajuddin quello
dell’Interno, lo zio Khalil il ministero dei rifugiati. I due fratelli di
Sirajuddin: Aziz, formatosi nella madrasa pakistana Darul Uloom Haqqania considerata l’università del fondamentalismo
deobandi, è rimasto un leader militare; mentre l’attuale trentenne Anas si è
fatto le ossa nella delegazione che negoziava a Doha il ritiro statunitense e mira
a funzioni diplomatiche. La loro scelta li ha definitivamente allontanati dal
gruppo del Khorasan che lo scorso anno ha intrapreso azioni mirate contro
esponenti talebani o governatori. E’ accaduto a Mohammad Dawood Muzammil,
ucciso nel proprio ufficio di Mazar-e Sharif. S’è detto che si trattava di una
vendetta seguita all’eliminazione del capo dell’Intelligence dell’Isis-K, tal
Qari Fateh. Sta di fatto che dopo la conquista di Kabul i taliban afghani hanno
incarcerato alcune centinaia di miliziani del Khorasan e smantellato diverse
loro cellule. Così l’Iskp ha ripreso a colpire all’estero puntando l’obiettivo
su russi e cinesi. In precedenza (settembre 2022) c’era stato l’assalto suicida
all’ambasciata russa di Kabul che uccise due dipendenti. La Russia costituiva
un nemico antico contro il quale rinnovare offensive. Aveva già conosciuto macabri
massacri d’impronta jihadista nella fattispecie dei separatisti ceceni: il
teatro Dobrovska di Mosca (2002), la scuola di Beslan (2004), nell’Ossezia del
Nord. Seguiti dagli attentati alle linee metropolitane di Mosca (2010) e San
Pietroburgo (2017) e quest’ultima carneficina, che uccideva tredici cittadini
in viaggio sui mezzi di trasporto pubblici, condusse all’identificazione come
attentatore d’un giovane russo nato nel Kirghizistan, radicalizzato per
frequentazioni con combattenti islamisti siriani. Proprio questi agguati
all’apparenza condotti singolarmente o da nuclei minuscoli ma egualmente capaci
d’infilarsi nelle maglie per nulla selettive e protettive di cittadini e
territorio, mostravano organismi più agguerriti di semplici lupi solitari. La
Russia così militarizzata, impegnata sugli scenari siriano e libico per tacere
d’altro, si ritrova particolarmente vulnerabile in casa. Con 007 interni e agenti del Fsb (Servizio di
Sicurezza Federale) magari capaci dei più misteriosi intrighi al servizio della
politica del Cremlino, ma non di un eccellente filtro contro il terrorismo. I
successi del suo operato sono ormai datati al 2015 quando venne eliminato
Aliaskhab Kebekov, successore di Umarov nel cosiddetto ‘Emirato del Caucaso’. Ma
di leader tajiki e uzbeki nulla, solo pedine esecutive.
La realtà è che lo jihadismo combattente
ha orientato ancor più a Oriente il fulcro del suo reclutamento, i miliziani
del Khorasan hanno una matrice diversa dai caucasici della lotta cecena. Quest’ultimi
sono stati limitati e, almeno per ora, sconfitti, mentre nel cuore asiatico c’è
un potenziale serbatoio copioso. Lo dimostrano i nuclei di tajiki attentatori
reali e potenziali, come qualche sospettato fermato in via preventiva (uno
anche in Italia). I dati provenienti da quel Paese, che ha più del 10% della
sua popolazione emigrata, per la maggior parte proprio in Russia ma pure in
nord Europa, vedono giovani alla ricerca di denaro con lavori d’ogni sorta.
Quello del killer prezzolato è decisamente estremo, eppure alcuni dei fermati
per l’ultimo attentato di Mosca sostenevano d’aver ucciso per soldi, neppure tanti:
cinquemila euro. Elemento non nuovo. I talebani ingaggiavano miliziani fra le
truppe afghane, pagandoli il doppio della tariffa prevista dai governi Karzai e
Ghani. E lo stesso Khorasan ha strappato combattenti ai taliban non sempre per
furore fondamentalista. Il dio denaro è un motore che travalica leggi
religiose. Poi prevalgono anche orientamenti politici più o meno in voga.
L’Uzbekistan che nell’ultimo decennio ha vissuto un’accelerazione economica e
ha aperto canali turistici con l’Occidente, anche grazie alla straordinaria
bellezza artistica di alcuni suoi luoghi di culto (le moschee di Samarcanda,
Buchara e Khiva), ha conosciuto un ritorno del jadidismo, accanto al jihadismo.
Il jadidismo aveva rappresentato una sorta di modernismo islamico di lingua
turca quando la Russia aveva ancora lo zar. Sotto l’attuale presidenza Mirziyoyev,
il governo di Tashkent idealizza questo pensiero, cercando con l’identità culturale
di sottrarre vocazioni alla lotta armata. Ma non c’è da sottovalutare l’impatto
informativo che l’Isis-K s’è dato tramite l’Al
Azaim Media Fondation. Come e più del Daesh di Al Baghdadi, questa
struttura utilizza piattaforme social (Facebook,
Telegram, Tik Tok) per attività di propaganda, reclutamento, finanziamento,
divulgando in una decina di lingue oltre all’inglese e coprendo un ampio
territorio dell’Asia centrale. Fra gli obiettivi esposti, e per ora solo
minacciati, anche una sorta di logoramento e sabotaggio delle infrastrutture
energetiche (oleodotti e metanodotti) verso l’Asia e verso l’Europa. Qualche analista sostiene che per il futuro le
prospettive appaiono nere più della loro bandiera, c’è quasi da rimpiangere Al
Qaeda.
(di prossima pubblicazione sul numero di giugno del periodico "Confronti")