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martedì 30 aprile 2024

Voto indiano, prime tendenze

 


Anche in India si vota meno? E’ presto per dirlo, anche perché la Commissione Elettorale non ha lanciato nessun dato ufficiale per i turni elettorali del 19 e 26 aprile scorsi che hanno coinvolto alcuni Stati del nord est, nord ovest e del meridione orientale del Paese. Le percentuali nazionali non sono mai state elevate per l’oggettiva difficoltà logistica di talune zone che comunque, per obbligo costituzionale, vedono la macchina amministrativa portare le urne pure in luoghi impervi dell’estesissimo territorio. Il decennio segnato dal successo di Modi alla guida del gruppo nazionalista Bharatiya Janata Party ha registrato nel 2014 una partecipazione del 61% degli iscritti ai seggi (31% il risultato del Bjp, 18,5% per la coalizione del National Congress), seguita da un incremento al 67% nel quinquennio seguente (37% al Bjp, 19,50% al NC). Attuali calcoli non ufficiali stimano una flessione, nonostante il roboante lancio di se stesso nella veste di padre della patria fatta dal presidente che cerca il terzo mandato. Modi lo conseguirà per la pochezza degli avversari, per il contributo offerto da nazioni popolatissime e fedelissime al suo programma, come l’Uttar Pradesh che andrà alle urne il 20 maggio. Ma più sull’onda delle spaccature etnico-confessionali che si richiamano al Bharat, la nazione degli hindu, che ai proclami lanciati ai primordi incentrati sul cambiamento, l’anticorruzione, lo sviluppo dei cosiddetti “giorni buoni” d’una nuova India. Indubbiamente la nazione si trasforma comunque molto in funzione ipernazionalista, un mai debellato virus che contagia varie aree del mondo, e spinge al conflitto più che al confronto e alla collaborazione. Alcuni osservatori sostengono che proprio l’esasperazione del culto del leader diffonda un desiderio di estraneità di taluni strati dell’elettorato che esprimono il dissenso con l’astensione. 

 

L’impossibilità di cambiare, di affidarsi a componenti politiche capaci d’incarnare bisogni prima ancora che desideri, allontana giovani e meno giovani dalle urne. Fra i bisogni si collocano necessità primarie soggettive quali un lavoro adeguatamente retribuito, e collettive come strutture ospedaliere, drammaticamente carenti nei mesi bui della pandemia da Covid 19, istituti scolastici attrezzati mancanti in diverse aree, vie di comunicazione degne d’un colosso economico globale. Contraddizioni presenti anche in Paesi occidentali dai contorni socio-demografici meno problematici, eppure l’India che vuole trainare l’Oriente al pari e più della Cina dovrebbe aver posto le basi per alcune soluzioni. Non pare questo l’intento governativo, volto a scavare fossati ancora più profondi fra gli strati negletti della popolazione, fossati che aggiungono alle vetuste caste, le emarginazioni etnico-religiose. Pezzi forti dei due mandati finora assolti da Modi sono stati aziende e templi. La produzione tecnologica e non solo alberga in talune zone (prevalentemente il nord est e attorno alle metropoli di Mumbai e Chennai), i capitali esteri continuano ad affluire, anche grazie agli inesistenti controlli statali sulla sicurezza sul lavoro e l’inquinamento. Inoltre recenti accordi sono stati firmati con alcuni Paesi europei fuori dall’Unione, Svizzera, Norvegia, Islanda potranno esportare merci evitando le barriere tariffarie che proteggono le aziende indiane. Il patto prevede una via privilegiata anche per quest’ultime libere di lanciare prodotti in Occidente senza pagare dazi. Quello mercantile è l’unico terreno sul quale l’acceso nazionalismo scivola via senza contrapposizioni e intoppi. A ben guardare è solo uno stratagemma per aggirare regole. E’ il liberalismo sfrenato che rende le collettività disuguali, in nazioni che pregando nei templi o nelle cattedrali si somigliano. 

martedì 23 aprile 2024

Modi, sogni di grandezza nella discordia

 


In India i richiedenti asilo e i rifugiati islamici provenienti da Bangladesh e Myanmar, quelli giunti prima dell’applicazione del Citizenship Amendament Act datato 2019 ed entrato in vigore di recente, sono bollati con l’epiteto di "infiltrati". Per la campagna elettorale che prosegue - visto che i turni ai seggi iniziati in alcuni distretti meridionali il 19 aprile si succederanno fino al 1° giugno in tutti i ventotto Stati e sette Territori dell’Unione - il presidente Modi sceglie di colpire indirettamente i presunti “infiltrati”. Durante un comizio nel Rajastan ha sparso benzina sul già rovente clima elettorale. Ha accusato il comunque malandato Partito del Congresso, maggiore antagonista del Bharatiya Janata Party, e prospettato un panorama nazionale apocalittico se lui dovesse perdere le elezioni, perché gli infiltrati musulmani potrebbero ricevere aiuti da un governo diverso dal suo. “Sarebbero favoriti quelli che hanno più figli” - ha tuonato - puntando sul nervo scoperto della maggioranza hindu che lo segue a occhi chiusi nella politica di modificare gli orientamenti del Paese a favore di un’unica etnìa: la propria. E’ un’insinuazione legata alla teoria del complotto definito ‘Love jihad’, il presunto furto delle ragazze hindu da parte di giovani musulmani che le corteggerebbero con lo scopo di far loro cambiare confessione. Se non fosse una calunnia lanciata come una clava sul dibattito politico potrebbe essere vissuta come una boutade, per quanto dati statistici dell’ultimo decennio mostrano un’inversione di tendenza nella natalità proprio nelle coppie islamiche che stanno facendo meno figli. Eppure anche un’elezione data dagli analisti per scontata con la vittoria certa del partito di maggioranza (accreditato dai sondaggi di un vantaggio di almeno 10 punti percentuali) e un terzo mandato per il presidente, vede quest’ultimo inseguire con accanimento la propaganda razzista dell’hindutva che ne ha forgiato la militanza giovanile. 

 

Modi mira a raggiungere nella Camera bassa (Lok Sabha) il numero di 370 deputati che gli consentirebbe una modifica costituzionale da indirizzare in senso etnico-confessionale tutta a favore della nazione hindu. Il quinquennio trascorso suffraga la tendenza. Il suo successo nel 2019 lo portava a sostenere di voler difendere l’intera popolazione, promesse mai mantenute sia sul versante della sicurezza sia su quello economico. La prima ha visto il crescendo della persecuzione religiosa soprattutto di islamici e cattolici. Sul versante sociale le maggiori lacerazioni hanno coinvolto gli strati più deboli (i dalit) e gli stessi contadini, mobilitatisi contro normative che favorivano le multinazionali dell’agricoltura. La durissima protesta del biennio 2021-22, con scontri di strada e centinaia di morti, portò al ritiro della legge. Altre categorie di lavoratori poveri, falcidiati anche dalle misure prese nel primo anno della pandemia di Covid 19, non hanno raggiunto risultati simili. Il tema dei bassi salari resta tuttora una piaga purulenta. E’ uno dei capi d’accusa dell’opposizione riunita nella coalizione con l’acronimo India (Indian national development inclusive alliance) formata appunto dal Partito del Congresso e da gruppi minori. Una delle formazioni presenti su tutto il territorio nazionale, l’Aam Adni Party, proprio alla vigilia delle elezioni ha denuciato come persecutorio l’arresto del leader Arvind Kejriwal, primo ministro dello Stato di Delhi. L’accusa nei suoi confronti è riciclaggio. L’Alta Corte della capitale ha respinto l’ipotesi di pagamento di una cauzione per la sua liberazione e il politico resta tuttora detenuto. L’Aap sostiene che infastidisce la loro posizione sul decentramento amministrativo e la campagna contro le multinazionali straniere cui l’attuale maggioranza consente ogni genere di affari. Del resto uno dei cavalli di battaglia di Modi è l’economia interna che corre, crescendo negli ultimi mesi oltre l’8%. Accanto al sorpasso demografico sulla Cina c’è la rincorsa alla forza economica. Alcune agenzie pronosticano l’ascesa indiana al terzo posto mondiale nel prossimo triennio. Modi vuol presiedere questo stato di grazia.  

mercoledì 17 aprile 2024

India elettorale, la carica del miliardo di elettori

E’ nell’India che resta quasi immune alla spinta confessionale hindu pur essendo induista, che non crede nel premier guru, che consolida gli ottant’anni d’indipendenza senza rifugiarsi nel Bharat, è lì che Modi vuole insinuare il proprio peso per stravincere. Perché secondo i pronostici la vittoria dovrebbe avercela in tasca, ma il sassolino nella scarpa duole al sud. Negli Stati federati del Tamil Nadu, Karnataka, Andhra Pradesh, Kerala, Telangana, più i territori dell'unione di Puducherry e Lakshadweep, questi sono i luoghi per lui poco amichevoli. E’ quel meridione terra felice, con un terzo del Pil nazionale e un quinto della popolazione del Paese-continente, a restargli ancora estraneo. Per questo le recenti cronache hanno registrato ben sei-sette viaggi del premier solo nel Tamil Nadu. Lì ha incontrato persone e presenziato a spettacoli di strada. Ha parlato con la gente, ha stretto mani e corpi, s’è fatto vedere nei luoghi dove il Bharatiya Janata Party ha raggranellato solo 30 dei 131 seggi disponibili nelle ultime elezioni. E l’ha fatto grazie ad alleanze con minute formazioni locali, risalendo la china davanti alle difficoltà che aveva registrato prima della conquista del potere nazionale. Gli arancioni che spopolano in diversi Stati, specie del nord, nelle aree meridionali non trovano gran seguito. A detta di vari politologi in quei territori il voto delle prossime settimane (le consultazioni partono il 19 aprile per concludersi il 1° giugno e coinvolgono quasi un miliardo di persone) potrebbe confermare la fidelizzazione degli elettori ai governatori in carica che formano un mondo a parte rispetto all’orientamento di maggioranza del Lok Sabha. Sono situazioni diverse fra loro che non hanno peso nel Parlamento di Delhi, nel quale il premier uscente spera di raggiungere quel consenso che fu soltanto del Partito del Congresso dopo l’attentato fallito a Indira Gandhi: 400 seggi sui 543 a disposizione. 

 

Certo, l’ex giornalista Ravindra Ravi, che dal settembre 2021 guida il mediamente popoloso Tamil Nadu (70 milioni di abitanti), appare come un leader legato alla tradizione, ben diverso dal collega Vijay Prashad, governatore del Kerala dove, sempre nel voto di tre anni fa, il Fronte Democratico di Sinistra ha ripreso ad amministrare il territorio in virtù dell’attenzione rivolta a varie emergenze, dalla pandemia da Covid alle inondazioni e ha stabilito un buon rapporto con la popolazione. Le statistiche dicono che in Kerala la mortalità infantile, tuttora una piaga in tanti Stati federati, ha una condizione simile alle migliori nazioni europee. Modi ha il pensiero fisso sul Tamil Nadu. Si racconta che durante le celebrazioni dello scorso gennaio in una zona di Chennai, che ne è la capitale, e dove il Bjp locale ha stabilito il proprio quartier generale si potevano intravedere un’effige in grandezza naturale della divinità  Ram e quella della divinità laica, Vladimir Ilic Ulianov, il bolscevico Lenin che compariva davanti alla sede del Partito Comunista dell’India. Mondi e ideologie ben diverse presenti in questa parte della nazione-continente. Dove l’immancabile teoria dell’hindutva, tuttora presente, provava a creare un proprio retroterra indottrinando i fedeli hindu e scagliandoli contro le minoranze religiose. Più di quarant’anni fa alcuni scontri conclusi con morti e feriti vennero innescati dalla diceria che giovani cristiani stavano molestando donne hindu, un malcostume che prescinde razze e fedi. Bisognava capire se l’accusa rispondesse al vero, ma i seguaci dell’hindutva non lo verificarono, picchiarono e accoltellarono. Comunque quelli che son rimasti negli annali della nera come “gli scontri di Mandaikadu” non hanno avuto il seguito riscontrato in altri luoghi del Paese in tempi lontani e recenti. E se la tendenza all’abuso della religione volto a una capitalizzazione politica del voto, soprattutto a vantaggio del partito di maggioranza, nel Tamil e negli Stati del sud c’è la tendenza a separare la scelta politica dalle credenze religiose. Questa è una spina nel fianco di Modi, che non a caso col suo governo diminuisce i seggi a disposizione di questi Stati a vantaggio di altri. Così il Tamil Nadu scende da 39 a 30 seggi parlamentari mentre l’Uttar Pradesh passa da 80 a 90.    


venerdì 12 aprile 2024

Isis Khorasan, la nuova centrale del terrore

 

L’inquietante e sanguinaria operatività dell’Isis Khorasan passibile, come tutte le organizzazioni para clandestine, d’infiltrazioni e strumentalizzazioni ha conosciuto due momenti: la fase precedente alla pandemia da Covid 19 e quella successiva. Non che i miliziani e i nuovi adepti si siano concentrati sulla prevenzione dai contagi, certo è che fra il 2020 e il 2021 la movimentazione di persone attraverso i confini nazionali, almeno quella costretta a transitare per porti e aeroporti, risultava bloccata o sensibilmente ridotta e questo ha prodotto un limite a una certa tipologia di attacchi. E’ vero che molte località dove operano i jihadisti sono aree orientali disastrate politicamente e spesso anche militarmente che non si sono interessate granché alla limitazione degli spostamenti e hanno potuto registrare ogni sorta di scorreria. Ma è nel 2022 che l’attenzione delle maggiori agenzie d’Intelligence riscontra una rilanciata operatività, sino ai sensazionali attacchi di cui si sono occupati i media mondiali come per il Crocus City Hall di Krasnogorsk alle porte di Mosca. Deflagrante, non solo per l’esplosivo usato, era stata anche la strage di Kerman a inizio anno, eppure l’informazione mainstream non andava al di là della cronaca, e alla propagandistica di certo Occidente che considerava quel grosso attentato un “regolamento di conti fra terrorismi”,  rilanciando l’equivalenza fra jihadismo e Stato iraniano. Come si sa quest’ultimo - e come la Russia, recente obiettivo del Daesh del Khorasan - hanno combattuto l’organizzazione fondamentalista islamica sul territorio siriano, certo secondo proprie logiche geopolitiche volte ad assecondare il regime di Asad, un’entità statale legittimata col terrore. Però quello è lo scacchiere in cui, dal 2014 al 2019, si sono mossi regimi e satrapi, imperialismi, coalizioni, eserciti nazionali e mercenari di varie sponde, dopo la grande depressione creata in tutto il Medio Oriente da vari interventi stranieri. L’operazione Enduring Freedom (2001) voluta dal presidente statunitense George W. Bush, la seconda guerra del Golfo (2003) sponsorizzata dal premier britannico Tony Blair, passando per l’intervento internazionale in Libia (2011) agognato dal presidente francese Nicolas Sarkozy. Insensate sciagure geopolitiche, oltre che inutili bagni di sangue specie di civili: oltre mezzo milione di morti nelle tre tappe. 

 

Se si elucubra su chi organizza l’odierno terrorismo globale, spesso si dimentica l’effetto rimbalzo a talune cause d’impronta bellica, economico-finanziaria e di supremazia geopolitica tuttora imposte dalle democrazie occidentali. L’imperialismo è vivo e vegeto, con lui il colonialismo di ritorno e nella partita mondiale i protagonisti sono aumentati rispetto al sistema imposto un secolo fa dall‘Accordo Sykes-Picot. Tutto ciò che era stato digerito e dimenticato fra le due Guerre Mondiali e la successiva Guerra Fredda è riapparso alle soglie del nuovo millennio anche a seguìto delle scelte vecchie e nuove. Discorrere del Khorasan, che i nutrizionisti riferiscono al grano turanicum, ricco di fibre, significa culturalmente richiamare l’antica regione persiana “dove origina il sole”. E se nell’attuale Iran una provincia ha mantenuto fino a vent’anni addietro questo nome (ora è nota come Razavi Khorasan) specchiandosi nella città santa di Mashhad, era indicata come Grande Khorasan un’enorme area geografica che comprendeva quasi tutto l’odierno Afghanistan, parte degli attuali Turkmenistan, Uzbekistan e Tajikistan, tacciati nel Novecento come Repubbliche sovietiche ma in altre epoche territori appartenuti a greci, arabi, selgiuchidi, safavidi. Insomma nel Khorasan c’è passato un pezzo della Storia mediorientale e gli attuali miliziani che lo richiamano come denominazione d’un ipotetico califfato cercano di rievocare storicamente quanto di antistorico c’è nel loro programma. Quel che ha mostrato lo Stato Islamico nella prima fase della sua comparsa sul territorio siro-iracheno - per un buon periodo ampio più di 90.000 kmq - è stata propaganda sanguinaria, condita da un competente utilizzo della tecnologia e della tecnica di divulgazione, addirittura definita da taluni politologi “orwelliana”. Esperti di cinematografia notavano una meticolosa padronanza nel confezionare vere pellicole hollywoodiane con grafica, ritmo, alternanza di scenografie aggressive e discorsive per lanciare il proprio messaggio bellicistico, atto a diffondere paura e terrore. Gli scivolava accanto, sempre tramite filmati propagandistici, la visione utopica del proprio governo nel Califfato con cittadini sereni in mercati ricolmi di cibo e di una vita tranquilla sicuramente mai conosciuta, perché fra Raqqa e Mosul l’ampia coalizione anti Isis già nel 2015 lanciava attacchi di terra e bombardamenti dal cielo.

 

Eppure ben prima della disfatta e della ritirata da diverse zone di quel territorio, l’Isis marchiato Khorasan pensava a trovare spazi proprio in Afghanistan dove la guerriglia talebana metteva da anni alle strette le truppe Nato della Missione Isaf e l’esercito locale organizzato e addestrato dagli Stati Uniti. L’Isis-K (o Iskp) si faceva forte del reclutamento del Movimento Islamico dell’Uzbekistan, fondato nel 1991 dall’uzbeko Tahir Yuldashev e vicino ai talebani fino alla morte del mullah Omar, ma poi entrato in contrasto con loro giudicati “nazionalisti deviati”. Taliban e Isis-K ingaggiarono fra il 2016 e il 2018 un confronto a distanza a suon di auto e camion-bomba, colpendo obiettivi governativi, caserme, ambasciate, hotel, aeroporti, università, moschee (esclusivamente sciite), piazze e mercati dove poveri civili finivano straziati. Lo facevano per attribuirsi il primato dell’agguato più cruento, del colpo più audace, del controllo più stretto di un territorio che l’ufficialità del presidente Ghani non riusciva a gestire. Fu un periodo di cieca violenza diffusa in diverse città che riportava alla mente l’insicurezza esistenziale seconda solo alla guerra civile dei primi anni Novanta, peraltro concentrata nella capitale, il cui controllo costituiva il fine primario di ogni Signore della Guerra impegnato sul campo. Ingrossavano le fila del gruppo jihadista che si firmava Khorasan diversi talebani in dissidio con la Shura di Quetta, rimasta fedele ai princìpi del fondatore mullah Omar. Mentre i dissapori, e non solo per la sua successione, erano in atto anche prima della sua definitiva dipartita, avvenuta nel 2013 (era da tempo affetto da tubercolosi) e ufficializzata solo due anni dopo. C’erano alcuni turbanti che guardavano più alla visione transnazionale di Qaeda, cui s’ispira l’Isis, che allo statalismo dei talebani afghani. In aggiunta clan doppiogiochisti particolarmente potenti e agguerriti, come quello Haqqani, brigavano per ostacolare le nuove leadership talebane - Mansour, Baradar, Akhundzada - e in queste crepe reclutavano nuovi adepti. Fra cui ex Tehreek-i Taliban pakistani guidati dal gruppo tribale Orakzai che sconfinando si collocarono nelle province di Nangarhar, Kunar, Kunduz, Kabul. Di fatto l’Isis-K e i taliban afghani se non possono considerarsi fratelli sono parenti, formatisi nelle stesse strutture, ma dal 2014 i primi sono fuoriusciti dai ranghi dando vita alla nuova aggregazione. Fra l’altro le etnìe tajika e uzbeka, considerate di origine turca e minoritarie rispetto a quella pashtun incardinata fra la base logistica di Kandahar e quella ideologico-religiosa di Quetta,  costituiscono stirpi che rivendicano propri spazi di fronte al rigido centralismo del gruppo sunnita hanafita.  

 

Dopo la riconquista del potere da parte talebana (agosto 2021) e l’annuncio dell’Emirato afghano, gli Haqqani si sono ben accasati spartendo col Gotha ortodosso alcuni dicasteri: Sirajuddin quello dell’Interno, lo zio Khalil il ministero dei rifugiati. I due fratelli di Sirajuddin: Aziz, formatosi nella madrasa pakistana Darul Uloom Haqqania considerata l’università del fondamentalismo deobandi, è rimasto un leader militare; mentre l’attuale trentenne Anas si è fatto le ossa nella delegazione che negoziava a Doha il ritiro statunitense e mira a funzioni diplomatiche. La loro scelta li ha definitivamente allontanati dal gruppo del Khorasan che lo scorso anno ha intrapreso azioni mirate contro esponenti talebani o governatori. E’ accaduto a Mohammad Dawood Muzammil, ucciso nel proprio ufficio di Mazar-e Sharif. S’è detto che si trattava di una vendetta seguita all’eliminazione del capo dell’Intelligence dell’Isis-K, tal Qari Fateh. Sta di fatto che dopo la conquista di Kabul i taliban afghani hanno incarcerato alcune centinaia di miliziani del Khorasan e smantellato diverse loro cellule. Così l’Iskp ha ripreso a colpire all’estero puntando l’obiettivo su russi e cinesi. In precedenza (settembre 2022) c’era stato l’assalto suicida all’ambasciata russa di Kabul che uccise due dipendenti. La Russia costituiva un nemico antico contro il quale rinnovare offensive. Aveva già conosciuto macabri massacri d’impronta jihadista nella fattispecie dei separatisti ceceni: il teatro Dobrovska di Mosca (2002), la scuola di Beslan (2004), nell’Ossezia del Nord. Seguiti dagli attentati alle linee metropolitane di Mosca (2010) e San Pietroburgo (2017) e quest’ultima carneficina, che uccideva tredici cittadini in viaggio sui mezzi di trasporto pubblici, condusse all’identificazione come attentatore d’un giovane russo nato nel Kirghizistan, radicalizzato per frequentazioni con combattenti islamisti siriani. Proprio questi agguati all’apparenza condotti singolarmente o da nuclei minuscoli ma egualmente capaci d’infilarsi nelle maglie per nulla selettive e protettive di cittadini e territorio, mostravano organismi più agguerriti di semplici lupi solitari. La Russia così militarizzata, impegnata sugli scenari siriano e libico per tacere d’altro, si ritrova particolarmente vulnerabile in casa.  Con 007 interni e agenti del Fsb (Servizio di Sicurezza Federale) magari capaci dei più misteriosi intrighi al servizio della politica del Cremlino, ma non di un eccellente filtro contro il terrorismo. I successi del suo operato sono ormai datati al 2015 quando venne eliminato Aliaskhab Kebekov, successore di Umarov nel cosiddetto ‘Emirato del Caucaso’. Ma di leader tajiki e uzbeki nulla, solo pedine esecutive. 

 

La realtà è che lo jihadismo combattente ha orientato ancor più a Oriente il fulcro del suo reclutamento, i miliziani del Khorasan hanno una matrice diversa dai caucasici della lotta cecena. Quest’ultimi sono stati limitati e, almeno per ora, sconfitti, mentre nel cuore asiatico c’è un potenziale serbatoio copioso. Lo dimostrano i nuclei di tajiki attentatori reali e potenziali, come qualche sospettato fermato in via preventiva (uno anche in Italia). I dati provenienti da quel Paese, che ha più del 10% della sua popolazione emigrata, per la maggior parte proprio in Russia ma pure in nord Europa, vedono giovani alla ricerca di denaro con lavori d’ogni sorta. Quello del killer prezzolato è decisamente estremo, eppure alcuni dei fermati per l’ultimo attentato di Mosca sostenevano d’aver ucciso per soldi, neppure tanti: cinquemila euro. Elemento non nuovo. I talebani ingaggiavano miliziani fra le truppe afghane, pagandoli il doppio della tariffa prevista dai governi Karzai e Ghani. E lo stesso Khorasan ha strappato combattenti ai taliban non sempre per furore fondamentalista. Il dio denaro è un motore che travalica leggi religiose. Poi prevalgono anche orientamenti politici più o meno in voga. L’Uzbekistan che nell’ultimo decennio ha vissuto un’accelerazione economica e ha aperto canali turistici con l’Occidente, anche grazie alla straordinaria bellezza artistica di alcuni suoi luoghi di culto (le moschee di Samarcanda, Buchara e Khiva), ha conosciuto un ritorno del jadidismo, accanto al jihadismo. Il jadidismo aveva rappresentato una sorta di modernismo islamico di lingua turca quando la Russia aveva ancora lo zar. Sotto l’attuale presidenza Mirziyoyev, il governo di Tashkent idealizza questo pensiero, cercando con l’identità culturale di sottrarre vocazioni alla lotta armata. Ma non c’è da sottovalutare l’impatto informativo che l’Isis-K s’è dato tramite l’Al Azaim Media Fondation. Come e più del Daesh di Al Baghdadi, questa struttura utilizza piattaforme social (Facebook, Telegram, Tik Tok) per attività di propaganda, reclutamento, finanziamento, divulgando in una decina di lingue oltre all’inglese e coprendo un ampio territorio dell’Asia centrale. Fra gli obiettivi esposti, e per ora solo minacciati, anche una sorta di logoramento e sabotaggio delle infrastrutture energetiche (oleodotti e metanodotti) verso l’Asia e verso l’Europa. Qualche analista sostiene che per il futuro le prospettive appaiono nere più della loro bandiera, c’è quasi da rimpiangere Al Qaeda. 

 

(di prossima pubblicazione sul numero di giugno del periodico "Confronti")

giovedì 4 aprile 2024

Sisi lavora alle solite galere

 

Da settimane siamo abbagliati dalla presenza di Abdel Fattah Al Sisi nei delicati e contraddittori negoziati sulla straziante condizione dei due milioni di gazesi che ogni giorno perdono dieci, cento, mille concittadini massacrati dai missili israeliani e dalla fame. E non abbiamo sentore di quello che il presidente-golpista fa a casa sua, pensando, come vedremo, anche ai palestinesi. Stanotte ha fatto sequestrare altri giornalisti e attivisti, processati rapidamente stamani e condannati a due settimane di reclusione da scontare nel carcere ‘Ashara Ramadan’ del Cairo. Chi segue da tempo le vicende egiziane sa cosa vogliano dire quelle due settimane: celle iperaffollate, interrogatori ritmati da bastonature per confessare quel che non si è fatto né pensato. Quindi ritorno davanti ai magistrati per un altro turno di arresti, che si rinnova: quindici giorni, un mese e via andare. Patrick Zaki si è invecchiato di due anni, poi gli ha giovato la laurea bolognese e indirettamente il precedente assassinio di Giulio Regeni che già rendeva imbarazzante la situazione fra Roma e Il Cairo. Imbarazzante ma non conflittuale. Dal 2016 nessun esecutivo italiano ha mai alzato la voce verso le responsabilità politiche del governo del Cairo. Che sono responsabilità di Al Sisi e della sua congrega, militare e laica. Di questo gruppo fa parte un boss che si chiama Ibrahim Al Arjani, ora collocato dal presidente alla guida del ministero dell’Interno. Perché lo definiamo boss? Non tanto perché questo signore è il capo tribale dei Tarabin, il più importante ceppo beduino della penisola del Sinai, antico di tre secoli e noto in tempi recenti per traffici lungo il confine israelo-egiziano di droga, armi, prostituzione, esseri umani. 



L’illegalità non coinvolge l’intera comunità ma taluni clan, quello di Arjani si è ben strutturato anche dal punto di vista logistico con aziende edilizie e le immancabili attività turistiche, mettendo il naso pure nei tragitti degli aiuti umanitari con l’antica e sempre valida richiesta di denaro in cambio di “protezione”. Il giornalista egiziano Osama Gawish ha dichiarato su una piattaforma social che Al Arjani non segue solo affari più o meno leciti, ma dall’epoca della repressione statale contro i gruppi jihadisti presenti nel Sinai s’è dato da fare formando un corpo mercenario che continua a servirgli da braccio armato. Da qui la collaborazione col regime s’è intensificata, passando per un rapporto confidenziale con Mahmoud Sisi, ufficiale dell'Intelligence e figlio del presidente. Questa vicinanza ha molto aiutato il business del boss ampliatosi per e con le Forze Armate. Più di recente gli affari dell’imprenditore-ministro si sono incrociati con l’ipotesi di creare “campi profughi” di palestinesi in territorio egiziano. Quelli che Sisi sostiene di non volere ma che poi accetterà in virtù del suo ruolo di carceriere molto apprezzato dalla comunità internazionale, e che ha già visto sorgere recinzioni alte cinque metri, l’ennesimo muro destinato ai superstiti palestinesi, un popolo prigioniero ovunque si trovi, venga collocato o deportato. Nessun conflitto d’interessi - figurarsi - fra il ministro che smista e l’imprenditore che guadagna, cioè mister Arjani, anzi probabilmente in base alle sue specialità l’uomo di Sisi potrà offrire garanzie a una delle voci del “piano Mattei” che tanto premono al governo Meloni: il contenimento dell’emigrazione sull’altra sponda del Mediterraneo.   

Amministrative turche: c’è un’altra Turchia?

 

Dopo le recenti amministrative, che registrano una sconfitta ancor più sonora di quella di cinque anni or sono del governativo Akp, sono in molti a chiedersi se ci sia una nuova Turchia in grado di sostituire il modello erdoğaniano. I risultati del 31 marzo hanno visto la rielezione di sindaci repubblicani nelle maggiori città. Innanzitutto nel luogo simbolo - Istanbul - dove l’uscente Ekrem İmamoğlu ha surclassato, distanziandolo di dieci lunghezze percentuali, l’ex ministro Murat Kurum, candidato scelto direttamente dal presidente. Nella capitale non c’è stata partita, Yavas si è confermato primo cittadino con 59,6% di preferenze su un grigio Altinok (32,2). A Izmir più del 10% è stato il distacco del repubblicano Tugay sull’uomo dell’Akp Dağ. Era accaduto anche nel 2019; ora però questo successo non rappresenta più una novità bensì un solido stato delle cose. Tenete presente il concetto dell’inconsistenza degli esponenti filogovernativi, perché costituisce il fulcro dell’odierna crisi della creatura politica di Erdoğan. Ne parleremo più avanti. Lo smottamento del consenso intacca anche grandi città come la fedelissima e conservatrice Bursa per nulla sfiorata dalla precedente flessione. E anche centri minori: Balıkesir, Denizli, Uşak, Kütahya, Kırıkkale, Afyonkarahisar che rappresentavano lo zoccolo duro del Partito della Giustizia e Sviluppo. Cosa accade? Accade che le tante Turchie interne al contenitore patrio, sempre al centro delle considerazioni d’ogni elettore nel corso di consultazioni politiche, quando si vota per le municipalità rilasciano la scia delle svariate identità che non sono solo etniche, religiose, culturali. Tutto fibrilla attorno a questioni locali concernenti servizi, strutture, investimenti e aspetti che hanno pure risvolti nazionali, ma nei municipi sono particolarmente sentite dalla gente. 

 

Oppure, come si dice, problemoni grossi come case. Quest’ultime, appunto, spazzate via a centinaia di migliaia dal cataclisma del febbraio 2023 che ha colpito il sud-est (ne sono state censite 300.000) sono ferite ancora aperte e profondissime. Non tanto per chi non c’è più, oltre cinquantamila persone, ma per chi vive tuttora la precarietà abitativa: ottocentomila cittadini collocati in alloggi di emergenza. Certo, la popolazione toccata dalla catastrofe ammontava a 15 milioni, e l’agenzia governativa Afad, che s’occupa di assistenza e sostegno ai terremotati, dopo iniziali titubanze ha lavorato a pieno regime. Comunque lo scontento resta profondo fra quegli sfollati che un mese dopo sentivano Erdoğan promettere alloggi per tutti entro l’anno e si son trovati a inizio 2024 ancora senza casa. Se l’elettore dell’Akp, nel maggio delle trascorse presidenziali continuava a seguire il leader e lo confermava alla guida della nazione, poi vedendo come candidato nella metropoli-vetrina l’ex ministro Kurum si sarà spazientito voltando le spalle al partito e al padre della patria. Perché Kurum è stato a lungo manager dell’azienda statale Toki, quella che aveva creato edifici crollati e nuovamente scelta per una ricostruzione che si rivela tardiva. L’altra piaga che affligge il cittadino medio, e non salva gli elettori filo islamisti, è un’inflazione senza fondo che sale, sale davanti alle contestatissime volontà di Erdoğan d’inseguire un rilancio economico tagliando i tassi d’interesse. Lui l’ha imposto alla Banca Centrale in contrasto coi suoi ministri delle Finanze. Ne ha cambiati cinque in un paio d’anni, litigando con ciascuno perché quella mossa è agli antipodi delle misure indicate dalle ferree leggi monetarie. Ma tant’è. Si prosegue su questa strada e la gente vede alleggerire il portafoglio come mai era accaduto in un ventennio di sviluppo. Il carovita è stellare. Oggi al 70% e domani? 

 

İmamoğlu, l’uomo che fa sognare la laicità presente nello storico gruppo kemalista, e dopo la riconferma scandiva dal palco: “E’ l’alba d’una nuova era”, è dinamico, accattivante, carismatico, pronto a sostituire in un futuro distante quattro anni Erdoğan. Innanzitutto perché a quel punto lui avrà 56 anni e il sultano 74. L’eternità in politica non esiste. Esiste il mito e questo l’attuale presidente l’ha creato: è entrato nell’empireo della Turchia moderna al fianco di Atatürk, addirittura sopravanzandolo. Potrebbe bastargli. Coi rapporti di forza incrinati non gli conviene tentare un rimaneggiamento della Costituzione, può costargli caro. Dovrebbe chiudere da vero padre della nazione, osservando lo scenario sopra le parti e soprattutto cercare un sostituto nel suo campo. Ma una maledizione da leader maximo lo insegue. E’ attorniato dai volti scoloriti di politici perdenti, come quelli giubilati in queste amministrative, che sono ciò che resta dei repulisti compiuti da lui medesimo contro le menti migliori dell’Akp che ne hanno accompagnato l’avventura politica. I Gül e Davutoğlu hanno ormai i loro anni, ma è stata la furia erdoğaniana abbattutasi su di loro che ha prodotto nell’ultimo decennio un panorama di soggetti simili più agli apparatčiki sovietici che a figure seducenti da cui poteva scaturire un delfino. Anno dopo anno il sultano ha continuato a regnare e, come accade ai grandi capi egocentrici, non ha pensato alla successione. Credendo bastasse investire del ruolo un tecnocrate, dal genero Albayrak a vari ministri incaricati e poi bocciati.  E’ andata male. Adesso si trova con la palla a centrocampo, come il calciatore che fu a Kamsipaşa, senza avere il fiato per correre dietro a un avversario con vent’anni meno. Eppure lo stesso politico dell’ipotetico futuro, uomo col vento in poppa e forza da vendere anche nell’ambiente imprenditoriale da cui proviene, ha un contorno banalmente normale non privo di ambiguità.

 

Scandagliandone le radici viene fuori l’uomo probo e tradizionalista. Buon musulmano praticante, marito e padre, con la moglie Dilek che dal palco saluta coi capelli al vento, un’impronta modernista rispetto alla velata Emine, consorte del presidente. Però interrogato sull’autoritarismo esistente nel Paese İmamoğlu parla solo di stampa repressa e diritti generici. Civili? sì. E di genere? Mah… Per non trovarsi in imbarazzo lascia correre. Gli attivisti antagonisti e i cronisti a tutto tondo che l’hanno incalzato sul tema della persecuzione omofoba contro la comunità LGBTQ diffusa nel Paese, ne hanno conosciuto pallore e silenzi. E’ accaduto nel quinquennio ormai archiviato da primo cittadino. Magari cambierà. Però in quest’aspetto la somiglianza con l’uomo di potere Recep è palese e imbarazzante. La tendenza a lasciar cadere tematiche sgradite, una diplomazia di comodo non sono atteggiamenti che fanno ben sperare la gioventù più radicale che vuole fuggire da Erdoğan senza tornare a vivere nel kemalismo benpensante dei loro padri, una società tutta affari e spesso corruzione. Era il sistema politico contro cui tuonava un giovane Recep, partendo anch’egli dalla municipalità di Istanbul prima di diventare uomo di potere. Il radical love che ha caratterizzato la campagna politica repubblicana del 2019 è inteso dai giovani ribelli di quella metropoli, passati per la rivolta di Gezi Park e la durissima repressione, come possibilità di vivere i desideri personali e collettivi fuori  dall’autoritarismo e pure dai moralismi. Un bel pezzo di elettori del Chp non vede di buon occhio questi ragazzi, su di loro la pensano come chi vota Akp. Per la sua corsa presidenziale Kılılçdaroğlu aveva confezionato un manifesto coi volti di cittadini che avevano avuto esistenze calpestate e spezzate da coercizione e violenza. Fra costoro c’era Hande Kader, una transgender, icona dei Gay Pride trovata nel 2016 orribilmente mutilata e carbonizzata. Pura propaganda? Probabilmente sì, visto che i repubblicani predicano bene e razzolano male, tendono a non sostenere le proposte di legge per la libertà sessuale avanzate da forze di sinistra come il Turkish Worker’s Parti e il Dem Parti. Riguardo a orientamenti favorevoli a multiculture e multietnicità si ritrovano spesso ad accogliere i grevi mal di pancia della nazione che vuole espellere i profughi siriani, li ghettizza in determinate aree, s’approfitta della loro manodopera e quando può li bastona. Insomma aria vecchia, altro che progressismo. 

 

Le alleanze, che già condizionano la stabilità dell’attuale esecutivo con l’Akp spostato più a destra del suo naturale conservatorismo nel cinico abbraccio coi nazionalisti del Mhp, saranno le protagoniste del divenire turco. Oltre quelle formazioni molto ideologiche, fra l’altro ininfluenti elettoralmente, come il citato Tip, un rapporto più stretto e proficuo il Chp potrebbe crearlo col partito filo kurdo, oggi Dem, che conserva una presa sull’elettorato del sud-est. Al di là di antichi pregiudizi con cui il kemalismo giudicava i kurdi e di conseguenza li trattava, pregiudizi che hanno lasciato strascichi e scarsa empatia fra i due blocchi,  l’avvicinamento presente e futuro può avvenire esclusivamente per archiviare l’esperienza erdoğaniana. Per realizzarlo ci vorranno leader e gruppi dirigenti di buona volontà su entrambi i fronti. Un segnale che rinfocola l’islamismo, ben più duro e puro di quello dell’Akp, queste amministrative l’hanno avuto col buon risultato del Yeniden Refah di Fatih Erbakan, figlio del più noto Necmettin, già primo ministro nella seconda metà degli anni Novanta. Il 6,2% di musulmani conservatori ha riversato il voto su questa lista, allontanandosi dalla casa madre. E’ con la loro diaspora che l’Akp ha perduto il primato di primo partito. Comunque il banco di prova del nuovo che avanza all’interno, sarà la politica estera. Qui l’immagine di passato e futuro potrebbe apparire in tutta la sua imbarazzante somiglianza per chi dice d’essere altra cosa. Poiché nel mondo vicino e lontano il Chp di İmamoğlu e dell’attuale responsabile Özel non potrà risultare differente da quello che il partito ha sostenuto per anni: niente di diverso da quanto diceva Erdoğan. Perciò: rapporto stretto con la Nato e riferimento per il mondo islamico, con in testa i palestinesi sotto attacco come non mai da parte di Israele. Forse nessuno si lancerebbe in certe mischie da macelleria tipo quella siriana, mutando pelle, posizioni e obiettivi come ha fatto il sultano. Ma è anche a seguito di tali azzardi che l’odierna Turchia ha un peso regionale e mondiale di primo piano, dalla diplomazia concertativa alle basi militari esecutive. Questo ruolo, se non imperiale certamente centrale, inorgoglisce il cittadino turco, lo stesso che s’infuria per l’inflazione e magari la sopporta con l’amor patrio trasformato in Büyük Vatan. Se fra quattro anni la politica turca vivrà un passaggio di testimone, la nazione resterà se stessa.

(di prossima pubblicazione sul mese di maggio del periodico "Confronti")

lunedì 1 aprile 2024

Turchia, la sorpresa diventa realtà

 


"Ha vinto la democrazia” dice il sultano in persona, parlando da presidente e non da leader dell’Akp per attenuare il ridimensionamento che la sua creatura politica subisce con queste amministrative. L’ipotesi di riprendersi quello che vent’anni addietro era suo e aveva resistito sino allo scossone delle municipali del 2019 è nuovamente naufragato. Istanbul, Ankara, Izmir restano saldamente in mano ai sindaci del maggiore partito d’opposizione Chp, che vince in 35 città su 81, mentre il partito di governo si prende 13 grandi centri e 12 minori. E il computo dei voti, ancora parziale e da confermare, vede lo stesso Partito Repubblicano sopravanzare quello della Giustizia e Sviluppo di due punti percentuali: 37,74 contro il 35,49%. Il successo e il sorpasso avvengono nelle aree dove l’Akp aveva un radicamento consolidato: Bursa, Balıkesir, Denizli, Uşak, Kütahya, Kırıkkale, Afyonkarahisar. La conferma maggiore, con cittadini in strada a festeggiare sin dalla notte, si verifica nelle città simbolo del Paese, Istanbul e Ankara, dove İmamoğlu e Yavaş hanno surclassato i rivali. Se nella capitale il bis di Yavaş era dato per scontato, nella metropoli sul Bosforo lo scarto fra i candidati veniva considerato minimo. Eppure il sindaco uscente ha volato sul ministro che Erdoğan gli aveva opposto (Kurum) e con questo risultato la presunta stella della politica turca riceve una collocazione definitiva sulla scena nazionale. İmamoğlu riprenderà ad amministrare la città simbolo, ma l’attende lo scenario cui punta il suo storico partito: riprendersi la guida del Paese. Se avverrà nel 2028, secondo il normale calendario elettorale o per una crisi governativa sospinta da inflazione e crisi economica che attanagliano la nazione, lo vedremo. Certo è che l’elettorato turco urbano parla una nuova lingua, se lo faranno anche i cittadini dell’Anatolia rurale il sogno d’eternità tracciato dal premier-presidente sembra tramontare. Anche perché i suoi uomini, coloro che sceglie di rappresentarlo, non scaldano i cuori turchi, sono fedeli alla linea e alla patria ma non hanno carisma. 

 

İmamoğlu sì. I politologi lo valutavano positivamente anche nell’exploit di cinque anni or sono, se non avesse trovato ostacoli nella condanna inflittagli dalla magistratura e dalla corrente del partito che sosteneva l’anziano Kılıçdaroğlu , il testa a testa per la presidenza del maggio scorso con Erdoğan sarebbe stato il suo. Tutto è rimandato.  I pericoli che il sindaco del Corno d’Oro corre sono solo interni al suo partito. Sembra un paradosso, ma la politica insegna questo. Il nuovo corso del leader Özel dovrà valorizzare il volto più prezioso che il kemalismo mostra per riprendersi il Paese. Comunque la Turchia si conquista guardando fuori dai confini. Il sultano che ha pensato in grande sin da quando guidava anche lui Istanbul ha trovato consenso mescolando il liberismo patriottico degli anni Ottanta del secolo scorso del conservatore Özal con l’identità cultural-religiosa e il ricorso del glorioso passato ottomano. Un mix sostenuto da alcuni ideologi del partito che la sua abilità e spregiudicatezza hanno cementato contro nemici esterni e interni. Le pianificazioni nazionali si consolidano con lo sguardo estero e la Turchia ha trovato in Erdoğan una figura dispotica, ma intuitiva e flessibile. Per gli sviluppi futuri peseranno anche le alleanze. Per sopravvivere negli ultimi anni l’Akp ha scelto l’inquietante presenza al suo fianco del nazionalismo dei ‘Lupi grigi’ rivestiti del perbenismo del leader Bahçeli. Ma anche questo personaggio sta facendo il suo tempo. Nella attuali amministrative l’Mhp non ha raggiunto neppure il 5% dei consensi,  sopravanzato dal partito Refah (6,1%) e da Dem, la nuova sigla del partito filo kurdo che resiste ai continui scioglimenti imposti per legge. Il successo in tre città storiche dell’est: Diyarbakır, Mardin, Van ripropone la sua  guida di quei centri, che talvolta per cavilli burocratici o imposizioni repressive sono stati sostituiti d’ufficio. Il Chp prosegue ad amministrare le città costiere del sud: Antalya, Adana, Mersin. Il rinnovamento della politica turca può partire da qui.