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giovedì 4 aprile 2024

Amministrative turche: c’è un’altra Turchia?

 

Dopo le recenti amministrative, che registrano una sconfitta ancor più sonora di quella di cinque anni or sono del governativo Akp, sono in molti a chiedersi se ci sia una nuova Turchia in grado di sostituire il modello erdoğaniano. I risultati del 31 marzo hanno visto la rielezione di sindaci repubblicani nelle maggiori città. Innanzitutto nel luogo simbolo - Istanbul - dove l’uscente Ekrem İmamoğlu ha surclassato, distanziandolo di dieci lunghezze percentuali, l’ex ministro Murat Kurum, candidato scelto direttamente dal presidente. Nella capitale non c’è stata partita, Yavas si è confermato primo cittadino con 59,6% di preferenze su un grigio Altinok (32,2). A Izmir più del 10% è stato il distacco del repubblicano Tugay sull’uomo dell’Akp Dağ. Era accaduto anche nel 2019; ora però questo successo non rappresenta più una novità bensì un solido stato delle cose. Tenete presente il concetto dell’inconsistenza degli esponenti filogovernativi, perché costituisce il fulcro dell’odierna crisi della creatura politica di Erdoğan. Ne parleremo più avanti. Lo smottamento del consenso intacca anche grandi città come la fedelissima e conservatrice Bursa per nulla sfiorata dalla precedente flessione. E anche centri minori: Balıkesir, Denizli, Uşak, Kütahya, Kırıkkale, Afyonkarahisar che rappresentavano lo zoccolo duro del Partito della Giustizia e Sviluppo. Cosa accade? Accade che le tante Turchie interne al contenitore patrio, sempre al centro delle considerazioni d’ogni elettore nel corso di consultazioni politiche, quando si vota per le municipalità rilasciano la scia delle svariate identità che non sono solo etniche, religiose, culturali. Tutto fibrilla attorno a questioni locali concernenti servizi, strutture, investimenti e aspetti che hanno pure risvolti nazionali, ma nei municipi sono particolarmente sentite dalla gente. 

 

Oppure, come si dice, problemoni grossi come case. Quest’ultime, appunto, spazzate via a centinaia di migliaia dal cataclisma del febbraio 2023 che ha colpito il sud-est (ne sono state censite 300.000) sono ferite ancora aperte e profondissime. Non tanto per chi non c’è più, oltre cinquantamila persone, ma per chi vive tuttora la precarietà abitativa: ottocentomila cittadini collocati in alloggi di emergenza. Certo, la popolazione toccata dalla catastrofe ammontava a 15 milioni, e l’agenzia governativa Afad, che s’occupa di assistenza e sostegno ai terremotati, dopo iniziali titubanze ha lavorato a pieno regime. Comunque lo scontento resta profondo fra quegli sfollati che un mese dopo sentivano Erdoğan promettere alloggi per tutti entro l’anno e si son trovati a inizio 2024 ancora senza casa. Se l’elettore dell’Akp, nel maggio delle trascorse presidenziali continuava a seguire il leader e lo confermava alla guida della nazione, poi vedendo come candidato nella metropoli-vetrina l’ex ministro Kurum si sarà spazientito voltando le spalle al partito e al padre della patria. Perché Kurum è stato a lungo manager dell’azienda statale Toki, quella che aveva creato edifici crollati e nuovamente scelta per una ricostruzione che si rivela tardiva. L’altra piaga che affligge il cittadino medio, e non salva gli elettori filo islamisti, è un’inflazione senza fondo che sale, sale davanti alle contestatissime volontà di Erdoğan d’inseguire un rilancio economico tagliando i tassi d’interesse. Lui l’ha imposto alla Banca Centrale in contrasto coi suoi ministri delle Finanze. Ne ha cambiati cinque in un paio d’anni, litigando con ciascuno perché quella mossa è agli antipodi delle misure indicate dalle ferree leggi monetarie. Ma tant’è. Si prosegue su questa strada e la gente vede alleggerire il portafoglio come mai era accaduto in un ventennio di sviluppo. Il carovita è stellare. Oggi al 70% e domani? 

 

İmamoğlu, l’uomo che fa sognare la laicità presente nello storico gruppo kemalista, e dopo la riconferma scandiva dal palco: “E’ l’alba d’una nuova era”, è dinamico, accattivante, carismatico, pronto a sostituire in un futuro distante quattro anni Erdoğan. Innanzitutto perché a quel punto lui avrà 56 anni e il sultano 74. L’eternità in politica non esiste. Esiste il mito e questo l’attuale presidente l’ha creato: è entrato nell’empireo della Turchia moderna al fianco di Atatürk, addirittura sopravanzandolo. Potrebbe bastargli. Coi rapporti di forza incrinati non gli conviene tentare un rimaneggiamento della Costituzione, può costargli caro. Dovrebbe chiudere da vero padre della nazione, osservando lo scenario sopra le parti e soprattutto cercare un sostituto nel suo campo. Ma una maledizione da leader maximo lo insegue. E’ attorniato dai volti scoloriti di politici perdenti, come quelli giubilati in queste amministrative, che sono ciò che resta dei repulisti compiuti da lui medesimo contro le menti migliori dell’Akp che ne hanno accompagnato l’avventura politica. I Gül e Davutoğlu hanno ormai i loro anni, ma è stata la furia erdoğaniana abbattutasi su di loro che ha prodotto nell’ultimo decennio un panorama di soggetti simili più agli apparatčiki sovietici che a figure seducenti da cui poteva scaturire un delfino. Anno dopo anno il sultano ha continuato a regnare e, come accade ai grandi capi egocentrici, non ha pensato alla successione. Credendo bastasse investire del ruolo un tecnocrate, dal genero Albayrak a vari ministri incaricati e poi bocciati.  E’ andata male. Adesso si trova con la palla a centrocampo, come il calciatore che fu a Kamsipaşa, senza avere il fiato per correre dietro a un avversario con vent’anni meno. Eppure lo stesso politico dell’ipotetico futuro, uomo col vento in poppa e forza da vendere anche nell’ambiente imprenditoriale da cui proviene, ha un contorno banalmente normale non privo di ambiguità.

 

Scandagliandone le radici viene fuori l’uomo probo e tradizionalista. Buon musulmano praticante, marito e padre, con la moglie Dilek che dal palco saluta coi capelli al vento, un’impronta modernista rispetto alla velata Emine, consorte del presidente. Però interrogato sull’autoritarismo esistente nel Paese İmamoğlu parla solo di stampa repressa e diritti generici. Civili? sì. E di genere? Mah… Per non trovarsi in imbarazzo lascia correre. Gli attivisti antagonisti e i cronisti a tutto tondo che l’hanno incalzato sul tema della persecuzione omofoba contro la comunità LGBTQ diffusa nel Paese, ne hanno conosciuto pallore e silenzi. E’ accaduto nel quinquennio ormai archiviato da primo cittadino. Magari cambierà. Però in quest’aspetto la somiglianza con l’uomo di potere Recep è palese e imbarazzante. La tendenza a lasciar cadere tematiche sgradite, una diplomazia di comodo non sono atteggiamenti che fanno ben sperare la gioventù più radicale che vuole fuggire da Erdoğan senza tornare a vivere nel kemalismo benpensante dei loro padri, una società tutta affari e spesso corruzione. Era il sistema politico contro cui tuonava un giovane Recep, partendo anch’egli dalla municipalità di Istanbul prima di diventare uomo di potere. Il radical love che ha caratterizzato la campagna politica repubblicana del 2019 è inteso dai giovani ribelli di quella metropoli, passati per la rivolta di Gezi Park e la durissima repressione, come possibilità di vivere i desideri personali e collettivi fuori  dall’autoritarismo e pure dai moralismi. Un bel pezzo di elettori del Chp non vede di buon occhio questi ragazzi, su di loro la pensano come chi vota Akp. Per la sua corsa presidenziale Kılılçdaroğlu aveva confezionato un manifesto coi volti di cittadini che avevano avuto esistenze calpestate e spezzate da coercizione e violenza. Fra costoro c’era Hande Kader, una transgender, icona dei Gay Pride trovata nel 2016 orribilmente mutilata e carbonizzata. Pura propaganda? Probabilmente sì, visto che i repubblicani predicano bene e razzolano male, tendono a non sostenere le proposte di legge per la libertà sessuale avanzate da forze di sinistra come il Turkish Worker’s Parti e il Dem Parti. Riguardo a orientamenti favorevoli a multiculture e multietnicità si ritrovano spesso ad accogliere i grevi mal di pancia della nazione che vuole espellere i profughi siriani, li ghettizza in determinate aree, s’approfitta della loro manodopera e quando può li bastona. Insomma aria vecchia, altro che progressismo. 

 

Le alleanze, che già condizionano la stabilità dell’attuale esecutivo con l’Akp spostato più a destra del suo naturale conservatorismo nel cinico abbraccio coi nazionalisti del Mhp, saranno le protagoniste del divenire turco. Oltre quelle formazioni molto ideologiche, fra l’altro ininfluenti elettoralmente, come il citato Tip, un rapporto più stretto e proficuo il Chp potrebbe crearlo col partito filo kurdo, oggi Dem, che conserva una presa sull’elettorato del sud-est. Al di là di antichi pregiudizi con cui il kemalismo giudicava i kurdi e di conseguenza li trattava, pregiudizi che hanno lasciato strascichi e scarsa empatia fra i due blocchi,  l’avvicinamento presente e futuro può avvenire esclusivamente per archiviare l’esperienza erdoğaniana. Per realizzarlo ci vorranno leader e gruppi dirigenti di buona volontà su entrambi i fronti. Un segnale che rinfocola l’islamismo, ben più duro e puro di quello dell’Akp, queste amministrative l’hanno avuto col buon risultato del Yeniden Refah di Fatih Erbakan, figlio del più noto Necmettin, già primo ministro nella seconda metà degli anni Novanta. Il 6,2% di musulmani conservatori ha riversato il voto su questa lista, allontanandosi dalla casa madre. E’ con la loro diaspora che l’Akp ha perduto il primato di primo partito. Comunque il banco di prova del nuovo che avanza all’interno, sarà la politica estera. Qui l’immagine di passato e futuro potrebbe apparire in tutta la sua imbarazzante somiglianza per chi dice d’essere altra cosa. Poiché nel mondo vicino e lontano il Chp di İmamoğlu e dell’attuale responsabile Özel non potrà risultare differente da quello che il partito ha sostenuto per anni: niente di diverso da quanto diceva Erdoğan. Perciò: rapporto stretto con la Nato e riferimento per il mondo islamico, con in testa i palestinesi sotto attacco come non mai da parte di Israele. Forse nessuno si lancerebbe in certe mischie da macelleria tipo quella siriana, mutando pelle, posizioni e obiettivi come ha fatto il sultano. Ma è anche a seguito di tali azzardi che l’odierna Turchia ha un peso regionale e mondiale di primo piano, dalla diplomazia concertativa alle basi militari esecutive. Questo ruolo, se non imperiale certamente centrale, inorgoglisce il cittadino turco, lo stesso che s’infuria per l’inflazione e magari la sopporta con l’amor patrio trasformato in Büyük Vatan. Se fra quattro anni la politica turca vivrà un passaggio di testimone, la nazione resterà se stessa.

(di prossima pubblicazione sul mese di maggio del periodico "Confronti")

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