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giovedì 8 dicembre 2022

Bharatiya indiano, mani su città e campagna

E’ come se avesse votato l’Italia intera, sebbene il Gujarat non sia uno Stato ciclope fra quelli federati indiani. Dei suoi sessantuno milioni di abitanti si è recato alle urne - dal 1° al 5 dicembre - il 66% dell’elettorato, contro il 71% della tornata 2017. Ma questo che geograficamente è il più occidentale territorio indiano affacciato sul Mar Arabico, a ridosso del confine pakistano e non lontano dalla città simbolo dell’investimento della ‘via della seta marina’ - la Karachi adottata dalle compagnie navali cinesi come proprio hub portuale contro Mumbai, Mormugao e ogni velleità del gigante indiano - resta pur sempre un simbolo pregiato. Non solo per curiosità di sopravvivenza animale, come i suoi leoni fuori dall’Africa, ma per storia, luoghi di culto, legame col Novecento che ha segnato la nascita dell’India indipendente, visto che il Mahatma Gandhi operò nella regione fra il 1917 e il 1930. Così il gruppo di potere che sta caratterizzando l’India attuale col governativo Bharatiya Janata Party ha puntato molto su quest’elezione che sta vincendo sui concorrenti Indian National Congress e Aam Aadmi Party. I risultati, ancora parziali, conferiscono al primo 79 seggi, 9 al secondo 2 al terzo. Le proiezioni dicono che il partito hindu può raggiungere i 150 seggi, il Congress 51, l’Aadmi 13. Così il partito di Modi, che già guidava il Gujarat col premier Bhupendrabhai Patel, ribadisce un ampio controllo dei ventotto Stati federali (ne ha in mano sedici), quelli popolosissimi governati in prima persona (Uttar Pradesh, Maharashtra, Madhya Pradesh) oppure condizionati da fanatici alleati sostenitori dell’hindutva.  Su tali orientamenti razzisti i leader arancioni non solo s’adagiano ma da tempo sono diventati infuocati divulgatori con ogni mezzo, dal proclama oratorio, al sermone religioso, al jingle musicale, al programma televisivo. Nella campagna elettorale in Gujarat il partito del Congresso ha puntato su questioni sociali, sulle condizioni di Dalit e Adivasi, cioè gli oppressi e gli autoctoni, mentre i candidati dell’AAP, pur cercando di sollevare questioni irrisolte su salute e lavoro, hanno deciso di sfidare i colleghi del BJP sui temi del nazionalismo da opporre ai nemici storici pakistani e a quelli economici cinesi. I politici del Bharatiya hanno raccolto il richiamo portandolo sul terreno più congeniale in un territorio all’89% abitato da hindu: la religione. L’utilizzo che la formazione guidata da Modi fa del credo hindu, non ha rivali perché va a cercare rivali da combattere in qualsiasi entità collettiva (gruppo, partito, associazione) e anche singoli cittadini nei propri ruoli sociali, professionali, culturali. Per loro l’unico modello accettabile in India è l’induismo. Una tattica che omologa e massifica, e paga politicamente. L’indiano adulto s’offre fiducioso a tali raccomandazioni paterne, egualmente il giovane desideroso di menar le mani, trovare un capro espiatorio (musulmani, cristiani, poveri, stranieri, diversi d’ogni genere) e sfogare frustrazioni di carattere strutturale (disoccupazione, emarginazione, povertà di ritorno) è pronto a spargere sangue. Dopo la mobilitazione si prega Shiva e ci si purifica.

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