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giovedì 10 novembre 2022

Intrigo pakistano, faide politico-militari dietro l’agguato a Khan

 

C’è un altro Khan sulla strada accidentata di Imran Khan. Nessuna parentela, se non quella politica acquisita quando Abdul Aleem Khan, all’epoca rampante quarantenne, s’avvicinò al Tehreek-e Insaf Pakistan, creatura dell’ex campione di cricket. Il nome dell’altro Khan viene fuori dalle considerazioni che l’ex premier, ferito giorni addietro a una gamba e ora convalescente nella sua dimora di Lahore, fa con magistrati e giornalisti che, sotto la sorveglianza di sue guardie private, lo interrogano e l’intervistano. Ancora nessun sospetto, nessuna correlazione con l’agguato che, nonostante l’arresto dell’esecutore, resta avvolto nel mistero. Però non è un mistero che l’uomo non abbia agito da solo e sia solo una pedina prezzolata. Finora lui non ha spiegato nulla, né tantomeno rivelato i mandanti. Gli analisti pakistani che seguono gli intrighi dei Palazzi, setacciano vicinanze e rotture dell’ultimo triennio del mandato di Imran. Qualche elemento esiste: un suo contrasto, risalente a un anno fa, con pezzi da Novanta del potente esercito, fra cui spicca il generale Bajwa. Certo, da qui a elaborare congetture sull’implicazione di quest’ultimo e ancor più del Gotha militare sui colpi sparati a Wazirabad, ce ne passa. Se un po’ tutti si guardano dal farlo, la vittima mette in fila alcune questioni. E parte dal suo omonimo. Aver dato il via libera all’ingresso nel PTI all’affarista Aleem, che fino al 2012 aveva militato nella Lega Musulmana-Q da non confondere con quella targata N (Nawaz) che è roba della famiglia Sharif, cui appartiene l’attuale premier Shehbaz, forse è stata un’ingenuità. L’imprenditore Khan, proprietario del Vision Group, uno dei maggiori marchi immobiliari del Paese, creatore di Fondazioni in diversi settori dall’istruzione alla sanità, di orfanotrofi e centri di assistenza per bambini disagiati, decise già trentenne di entrare in politica. Dopo un decennio trascorso sulla sponda del partito nazionalista senza ottenere riscontri, nel 2012 s’avvicinò al PTI, scelta che gli ha fruttato la vicepresidenza nell’importante provincia del Punjab, ma non la candidatura alle politiche dell’anno seguente. Non furono quelle le elezioni del successo del Tehreek, vittorioso cinque anni dopo, e nel 2018 il candidato Aleem Khan ottenne proprio nel Punjab la carica di ministro per lo Sviluppo della Comunità. 

 

Però entrò in attrito col premier punjabo e per un’accusa del National Accountabily Bureau, ufficio che s’occupa di corruzione, venne arrestato. Il Khan leader e premier nazionale ne chiese le immediate dimissioni. Le scintille col partito di governo non si chiusero lì. Reintegrato nel 2020 e nominato primo ministro del Punjab Aleem nel maggio di quest’anno, in piena crisi politico-istituzionale che contrapponeva lo sfiduciato Khan  al nuovo premier Sharif, nell’Assemblea del Punjab votò per Hamza Sharif, figlio di Shehbaz. Un doppio schiaffo a Imran, tradendone il sostegno a favore d’un classico esempio di nepotismo. Insomma l’astio fra i due Khan è ampio. Un po’ il cerchio sui presunti nemici di Imran si chiude quando egli stesso rivela ai media che a forzare la mano per il sostegno ad Aleem quale premier del Punjab fosse stato l’onnipresente e ingombrante generale Bajwa. Con cui l’ex asso del cricket manteneva giocoforza i rapporti, finché non sorse il sospetto che stesse appoggiando un altro generale, Faiz Hameed, per il ruolo di Capo di Stato Maggiore ricoperto da Bajwa. Ecco la versione di Imran Khan rilasciata in queste ore: “Faiz era l'unico generale che conoscevo, lavorava con me come capo dell'Isi, non conoscevo nessun altro. Dissi a Bajwa che avrei accettato le loro indicazioni”. Evidentemente quest’ultimo, che verrà collocato a riposo fra alcuni giorni, fece altre considerazioni temendo di vedersi anzitempo giubilato dal primo ministro. Così osservatori, magari dietrologi, interpretano le crescenti difficoltà riscontrate da Imran Khan dall’inverno 2021 e unendo i tratti dei contrasti menzionati, leggono l’attentato come un esplicito avvertimento. L’ex premier che ha sempre attribuito la vittoria del 2018 alla sua popolarità e al programma anti corruzione, mentre da più parti si sostiene che il suo sponsor fossero le Forze Armate, oggi dice: "Non è possibile pensare che l'esercito venga piegato dalla politica: i militari sono da tempo un potere, c'è bisogno di un equilibrio. Usare la loro forza può far uscire il Paese dal collasso istituzionale". I proiettili ne hanno quietato lo spirito anti-sistema?

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