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sabato 6 agosto 2022

Emirato afghano, la forza delle spie

 

Osservatori di questioni talebane ipotizzano che dopo l’eliminazione di Ayman al-Zawahiri - colpito dal drone americano in pieno centro di Kabul, mentre era onorato ospite in un rifugio dorato del clan Haqqani - il ministro Sirajuddin sia riparato in tutta fretta altrove. Probabilmente fuori dallo stesso territorio dell’Emirato, nelle familiari aree tribali delle Fata o nell’altrettanto favorevole Waziristan oppure accettando la protezione dell’Isi pakistano.  L’attentato, preparato peraltro da mesi, rovina l’anniversario della presa del potere un po’ a tutto il Gotha dei turbanti, ma ancor più ai membri della famiglia Haqqani. La ritirata del ministro dell’Interno, l’uscita con lui dello zio Khalil ministro anch’egli (dei rifugiati), e di altri parenti stretti rappresenta una doppia conferma: gli apparati della sicurezza interna sono ampiamente insicuri per gli stessi grandi capi; ai vertici del gruppo continuano divisioni e lotte. Che gli Accordi di Doha, sbandierati da Trump, Biden, mullah Baradar e Khalilzad siano stati una maschera per consentire agli statunitensi di uscire da un disonorevole conflitto lungo vent’anni, e ai taliban di sostituirsi ai politici collaborazionisti locali, è un dato acquisito. Su quanto accade da circa un anno sul territorio esiste un confronto-scontro con vendette postume: il blocco dei miliardi di dollari afghani imposto dall’attuale amministrazione della Casa Bianca con ricadute sulla crisi alimentare della popolazione; le promesse non mantenute dell’Emirato sull’istruzione e i diritti delle donne. I firmatari dell’accordo s’accusano reciprocamente per le mancanze di cui sono responsabili. Così, a seguito dell’uccisione di al-Zawahiri, Washington punta il dito: i talebani ospitavano uno dei maggiori terroristi del mondo disattendendo l’accordo, e di contro additano l’allarme per nuove operazioni di guerra della Cia sul proprio territorio, vietate dai patti qatarini. 

 

L’addio a Kabul, non solo per le truppe Nato, ma per quel personale protetto dai piani di evacuazione che trasferiva in luoghi sicuri soldati e poliziotti afghani fedeli ai vecchi regimi in quanto possibili obiettivi di ritorsione, non ha smobilitato il sistema ‘paramilitare’ occidentale in loco. Lo dimostra, appunto, l’evoluzione della caccia al capo qaedista, giunta a conclusione con l’agguato a suon di ‘lame rotanti’ sganciate dal drone vendicatore. Un aeromobile salito in quota dal Pakistan, o di lungo raggio da basi aree saudite, da portaerei nel Golfo, addirittura da un probabile decollo uzbeko. Non è dato sapere, resta il segreto dei Servizi. Invece palese è la presenza fra chi vive nella capitale afghana, ne percorre le polverose strade, gira per bazar e rivendite ambulanti di una oliata rete d’informatori che riescono a riversare, probabilmente con l’ausilio dell’informatica, notizie e spiate oltreconfine e oltre cortina. Da chi sia composta la rete amica di Washigton sarebbe facilmente ipotizzabile. Collaboratori degli statunitensi meno esposti e conosciuti di chi, temendo faide estreme, ha preferito espatriare. Oppositori dei taliban che non trovano altro modo per contrastare l’Emirato che aiutare gli occupanti d’un tempo, si può supporre venendone ripagati con molto denaro per l’alto rischio che il compito comporta. In fatto di mercimonio si possono prevedere tradimenti interni, ben conosciuti dagli stessi talebani, perché se ne sono avvantaggiati quanto reclutavano soldati dell’Afghan Security Forces stipendiandoli il doppio del governo Ghani. Del resto nel tuttora presente conflitto a distanza che li contrappone ai dissidenti riuniti sotto la sigla dell’Isis Khorasan, in molti casi la scelta dei miliziani non è ideologica né teologica, ma banalmente economica. Nel fiume di dollari che accompagna la militanza accanto alle disponibilità organizzative, gli Haqqani si sono sempre distinti per fiuto degli affari e capacità di attuarli. Oggi sembrano perdere terreno, se stanno rintanati all’estero per timore di finire affettati come l’amico Ayman.

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