Dove aveva lasciato
l’Afghanistan, ridiventato Emirato, il circo mediatico globale dopo le calde e
affannose giornate dello scorso Ferragosto?
Più o meno appeso al fagottino, che
poi era un bimbo, sollevato fra muro e filo spinato dell’aeroporto Karzai, fra
le migliaia di corpi pressati sognando la fuga. Tanti flash, decine di servizi
sensazionali, come per le cento storie da raccogliere, usare e dimenticare. Sohail
- così si chiama il piccino, coccolato per qualche ora da un marine quindi lasciato sul marciapiede
per ordini superiori, mentre i genitori inutilmente lo cercano e s’infilano
senza di lui sul volo che decolla, prendere o lasciare - non è stato
abbandonato dal destino. Da tanta stampa sì. L’atto secondo della sua storia, che
pure ha un lieto fine, in pochi l’hanno narrato. Acchiappava di più l’umanità
del suo passaggio dalle braccia angosciate di chi scappava a quelle del soldato
salvatore. Per chi vuol sapere: Sohail nell’afa d’agosto è stato recuperato da un
tassista che ha cercato inutilmente i genitori, quindi l’ha condotto nella sua
casa di Kabul sistemandolo fra moglie e figlie. In questa vicenda la forza dei
social ha superato quella della grande informazione, perché una foto di Sohail,
che il padre putativo ha nominato Mohammad Abed, finisce su Facebook, è riconosciuta dai parenti
volati in Texas che giustamente lo reclamano. Viene coinvolta la polizia
(talebana) che non accusa il tassista di rapimento, ratifica l’accordo fra la
famiglia naturale e quella accogliente, peraltro ripagata dalla prima con un
migliaio di dollari. Poi mette il “fagottino” nelle mani di un’assistente, facendolo
accompagnare negli States. Se l’epilogo - degna trama d’un reality - è stato
tralasciato dai più, figurarsi come l’occhio si possa concentrare sulle tristi
contraddizioni della vita afghana dopo il 15 agosto. Nelle settimane seguenti l’obiettivo
ha oscillato fra i voli della speranza e alcune manifestazioni di donne reclamanti
ciò che i taliban vietano: l’autodeterminazione femminile. Questione, peraltro,
irrisolta davanti al fondamentalismo tollerato e presente nei governi salvifici
di Karzai e Ghani che hanno sotterrato la nazione.
Certo, ora tutto è
nuovamente in pericolo: istruzione, diritti, rappresentanza, lavoro.
Professioniste e giornaliste continuano a gridarlo anche per le sorelle povere impossibilitate
a farsi ascoltare. Vogliono smascherare le promesse talebane rimaste sulla
carta. Ma non possono essere le ex parlamentari di Karzai come Shukria Barzakai
o Fawzia Koofi a sostenere il movimento. Troppa la connivenza coi malfattori,
troppa la corruzione personale. Non lo diciamo noi. L’hanno ripetuto per anni le
attiviste Malalai Joya, Selay Ghaffar. La senatrice Roshan lo sottolineava in
interventi pubblici, infatti tutte e tre erano bandite da qualsiasi commissione
governativa. Chi lavorava davvero per le donne era tenuta lontana dalle leve d’un
potere che è stato maschilista e intollerante anche quando tante voci
occidentali sentenziavano: “L’Afghanistan
sta cambiando”. Come? Quando? Da un Paese abbandonato a sé si scappava ben
prima dell’agosto scorso. Lo raccontano i rifugiati nelle nostre città – da
coloro che ce l’hanno fatta a chi vive tuttora in una bolla di precarietà –: ci
si dileguava nel 2003 quando si moriva sotto i bombardamenti Nato, e nel 2018
per scantonare i camion-bomba che Isis e talebani facevano brillare per
dimostrare la propria potenza di fuoco. Quindi l’ultima fuga, per i fortunati
che potevano sedere sui voli dallo scalo di Kabul. Erano persone a rischio: militanti
antifondamentalisti, collaboratori di Ong grandi e piccole, facevano l’interprete,
l’impiegato, l’autista, il cuoco, il tuttofare. C’era chi aveva lavorato presso
strutture governative, nelle ambasciate estere, con gli organismi delle Forze
Armate interne e della Nato, c’erano individui bollati come
‘collaborazionisti’. Quindi atlete, calciatrici e cicliste, considerate un’eresia
per i deobandi. Queste categorie hanno
avuto accesso ai cosiddetti ‘corridoi umanitari’ sostenuti da associazioni di
volontariato che hanno condotto in Italia cinquemila rifugiati. Nello scorso
novembre Unhcr, Organizzazione per le Migrazioni, Istituto Migrazioni e
Povertà, Arci, Cei, Comunità di Sant’Egidio, Chiesa Valdese hanno firmato un
protocollo d’intesa col Viminale per accogliere altri 1.200 afghani provenienti
dai campi di Pakistani e Iran. E gli altri?
In molti non sono stati altrettanto
fortunati, non hanno potuto o voluto partire. Ma l’esodo è una soluzione? Dal
punto di vista personale magari sì. Come popolo non proprio. E’ possibile
pensare di far trasmigrare 39 milioni di afghani? Accanto alla guerra, insieme
alle illusioni di trasformazione istituzionale i vent’anni di occupazione
occidentale hanno compiuto lo scempio di non avvìare nel Paese nessuna economia.
I duemila miliardi di dollari spesi dal 2001 al 2018 dalle missioni Enduring Freedom, Isaf, Resolute Support non
hanno prodotto né investimenti né un briciolo d’infrastrutture. Servivano a
pagare militari e civili occupanti. Le uniche occasioni di lavoro per i locali sostenevano
un apparato che si sapeva sarebbe volato via assieme alle truppe. Poi in cauda venenum. Come uno scorpione del
deserto l’Occidente ha deciso di affamare la gente dell’Hindu Kush, già colpita
dalla sensibile diminuzione degli aiuti internazionali registrata nel 2020. E’
la vendetta del presidente Biden che vuole punire l’Emirato per la mancata applicazione
di diritti umani e di genere, bloccando i fondi afghani (9.5 miliardi di
dollari) presenti nelle banche statunitensi. L’ONU ha avvertito: si sta creando
una catastrofe umanitaria, 23 milioni di persone sono malnutrite, 3 milioni di
bambini rischiano di morire di fame. Eppure l’allarme è inascoltato dalla Comunità
Internazionale impegnata su altri scenari e dall’informazione infoiata dalla
cronaca, pur drammaticamente legata a nuovi conflitti e ultime emergenze. Gli afghani
in rotta autogestita, scorticati dalla tratta ma giunti sotto la Fortezza
Europa, hanno conosciuto solo le spranghe degli ustascia del Terzo Millennio. E quando, per le porcherie di certa
geopolitica, sono finiti nelle foreste bielorusse a ridosso del confine polacco
a pietire un ingresso, i poliziotti li hanno minacciati coi mitra e respinti. Ora
questi figli d’un dio minore guardano esterrefatti la ‘culla di democrazia’ UE che
accoglie secondo il colore della pelle e blocca i loro corpi dolenti.
Fra le potenze regionali
che avvinghiano i confini afghani - l’Iran a ovest, il Pakistan a est -
Islamabad ha più possibilità d’infilarsi nei nuovi orizzonti dell’Emirato, proseguendo
l’ambiguo dialogo con gli studenti coranici tornati statisti. Peraltro anche i vicini
del nord - uzbeki e tajiki, le cui etnìe sono presenti in territorio afghano - mostrano
un’apertura ai turbanti. Su quest’orizzonte è viva l’attenzione delle potenze
che restano dopo il disimpegno americano: Russia e Cina. La prima si muove
condizionando ex satelliti sovietici come Kazakistan e Turkmekistan, due ‘Stati
redditieri’ il cui sottosuolo ricco di gas, petrolio, uranio è appetibile anche
all’immensa fabbrica cinese. Pechino in Afghanistan ha le mani su rame e terre
rare e le conserverà fino al 2037, con la prospettiva di proseguire. 60 milioni
di tonnellate del primo, 1.4 milioni del cocktail dei diciassette minerali-base
indispensabili per l’Hi-tech, e
ancora ferro, oro, alluminio, litio. Il popolo afghano ha sotto i piedi un
patrimonio stimato mille miliardi di dollari, ma come altri Paesi colonizzati finora
l’ha ceduto al più forte o al più scaltro, anche per gli interessi privati di suoi
politici. L’ultimo episodio, lontano ormai un quindicennio, ha riguardato la
miniera di rame Mes Aynak, non lontana dalla capitale e da un sito archeologico
datato cinquemila anni fa. Tre miliardi e mezzo di dollari il corrispettivo pagato
dai cinesi per lo sfruttamento e incamerato da Watan Group di cui la famiglia
Karzai è socia. Nessuno ha mai visto l’ex presidente versare neppure qualche
spicciolo di quella cifra nelle casse dello Stato. E di ruberia in ruberia tre
generazioni si son dovute arrangiare facendo guerre o scappando da esse. La
Cina guarda al territorio afghano anche per il tracciato di un’ennesima via della
seta che attraversa l’ostile Xinjiang srotolando le merci a ovest. Se uno
sviluppo della medesima sale verso Kirghizistan e Uzbekistan, via Osh e Buchara,
il tratto nell’Emirato da Balkh punta verso il
Turkmenistan (Merv), entra in terra iraniana, va da Mashhad a Tehran e prosegue.
Se i cinesi non bluffano, pagheranno dazi, il problema è chi li gestirà e per fare
cosa.
Nei primi mesi dell’anno
i talebani sono stati molto attivi sul versante diplomatico. Cercati e
aviotrasportati a Oslo hanno incontrato rappresentanze di Stati Uniti, Gran
Bretagna, Francia, Germania, Italia e poi un altro blocco: russi, cinesi,
iraniani, pakistani, qatarini. Il ministro degli Esteri Muttaqi ha tessuto
un’ampia tela di relazioni. Il tentativo d’uscita dall’isolamento l’ha portato
ad aprirsi pure coi rifugiati all’estero di altre fasi della travagliata storia
del Paese. Questo il mantra: “Gli Accordi
di Doha rappresentano una buona base per un rilancio delle relazioni col mondo.
Gli afghani meritano di vivere dignitosamente nella loro terra, non devono
essere forzati a migrare da questioni economiche”. Un lamento rivolto al fabbisogno
alimentare, tralasciando il tema delle libertà. E se l’ovest non vuol
rispondere, la Umma islamica sembra aprire braccia e tasche. Da inizio marzo è
presente a Kabul l’ufficio dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica,
oltre un cinquantennio di vita e 56 membri, l’Afghanistan vi aveva aderito nel
1969. La sede locale, posta sotto la direzione di Muhammad Saeed al-Ayash, coordinerà
gli sforzi dei musulmani per sostenere le difficoltà finanziarie del Paese. Sono
in discussione piani per agricoltura e assetto viario, utili alla collettività per
possibili sbocchi lavorativi. Qatar, Emirati, Kuwait quali finanziatori ne
hanno discusso col viceministro dell’Economia Din Hanif. La diplomazia orientale
non si ferma. Il Pakistan ha ospitato una sessione del Consiglio dei ministri
degli Esteri dell’OIC, ponendo al centro l’offerta di recupero economico,
stabilità e sicurezza in terra afghana. Annunciato un prossimo intervento
dell’Accademia Islamica del Diritto per favorire comportamenti tolleranti verso
l’educazione e la tutela delle donne. In prima fila come sostenitore d’un
approccio inclusivo, il premier Khan. Autore d’un moto d’attivismo con cui cerca
di tamponare le contestazioni per una disastrosa gestione della politica
economica interna, cui ha aggiunto lo scioglimento del Parlamento che stava per
sfiduciarlo. Questo blitz istituzionale apre un’ulteriore crepa nella labile
democrazia pakistana che può riportare l’esercito a decidere sul futuro d’un
Paese lacerato.