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martedì 10 maggio 2022

Elezioni in Libano, l’illusione del cambiamento

 

Se nel Libano devastato dalle famiglie della politica e dal sistema della partizione, prima che dalla conseguente corruzione e dalla pandemia di Covid, va in scena tutto il già visto trentennale, gli elettori della diaspora hanno offerto una scossa. Hanno votato nel fine settimana con un’affluenza al 60% che è appena un po’ più dell’ultimo 56% di quattro anni or sono, ma esprime una speranza. Passionalmente di un ritorno a casa che qualsiasi concittadino rimasto a Beirut, Tripoli o nella Bekaa, sconsiglia vivamente. Proprio perché l’afflizione generale è data dall’impossibilità di cambiare e scrollarsi di dosso non il fatalismo levantino, ma l’aria ferma e fetida d’un ceto politico che “democraticamente” decide a priori per la cittadinanza. Eppure qualsiasi politologo ripete la verità sacrosanta della necessaria ripartizione prevista dal sistema interno che, offrendo garanzia alle maggiori comunità religiose, islamica e cristiana, ne tutela cittadini sunniti e sciiti da una parte, maroniti dall’altra, con tanto di etnìe e minoranze, alawite, druse e pure armene. Il tutto per non rivivere l’incubo della guerra fratricida fra chi, pur non considerandosi parente, è comunque convivente. Il meccanismo sarebbe passabile se la politica non ci mettesse lo zampino di usare la spartizione per favorire i più ossequioso fra gli adepti.  Così il libanese d’ogni fede e censo fuori da logiche di partito, si sente abbandonato se non proprio turlupinato dai clan familiari, sempre gli stessi che da due decenni hanno congelato potere e affari. Aumentando per sé il primo e limitando sempre più i secondi contro ogni logica d’interesse diffuso. Qualcuno è saltato: Saad Hariri, che a gennaio ha annunciato un definitivo ritiro dai vertici dello Stato e non rinnova pretese, provocando nello schieramento che guidava, Movimento Futuro, sollievo e preoccupazione. La prima sensazione è legata all’ingombrante figura che era diventato, ereditando tutto il peggio del liberismo paterno fatto d’intrighi e corruttela, senza però un briciolo di slancio e carisma del genitore, fattosi largo sugli appalti edilizi e i finanziamenti sauditi del dopo guerra-civile. Saad è stato solo un burattino saudita, in un quadro mediorientale mutato da conflitti spostatisi più a est, con l’inquietante presenza del fondamentalismo del Daesh. 

La preoccupazione – non solo del maggior gruppo politico sunnita – è data dalla sfiducia degli elettori verso le garanzie create dalla ripartizione. Le ribellioni di strada del 2019 indicavano questo, e dopo la pessima gestione di beni comuni e dell’ordinaria sicurezza messa in ginocchio dall’esplosione nei magazzini del porto della capitale del 4 agosto 2020, con morti, feriti, mutilati, sfollati e disperati tuttora in corso d’opera, in tanti hanno giurato odio e disprezzo a qualsiasi politico di professione. Ci si attende, dunque, la protesta del voto, una grande astensione sebbene l’anticipo di consultazione all’estero non l’abbia registrato. Fra gli espatriati hanno agito giovani volontari della cittadinanza attiva che, tramite la tecnologia e il tam-tam sui social,  hanno sospinto coetanei e loro parenti verso i seggi allestiti nei Consolati. Del resto anche la gioventù, soprattutto beirutina, aveva animato l’ottobre di protesta di tre anni fa e il desiderio di cambiare rotta, cui ciascun partito aveva promesso di prestare ascolto. Per poi tradirlo. Dalla crisi sunnita puntano a ricavare vantaggi in aree a loro più congeniali il Partito di Dio e le Forze Libanesi, sempre militanti, sempre armate, sempre contrapposte, come quando hanno dato vita (ottobre 2021) a sparatorie nel quartiere Tayouneh, con vittime e ospedalizzati. Del resto come il Majlis, l’Assemblea Nazionale, i cui 128 seggi sono in ballo nelle elezioni del 15 maggio, seppure ciascuna componente avrà una rappresentanza, certi quartieri beirutini restano presidiati come caserme secondo le appartenenze: ad Ashrafiyyeh sventolano i vessilli con la croce,  Dahiya è impavesata di giallo. E’ in altri grandi centri come Tripoli, che fu l’ultima tradotta palestinese, che la disillusione giovanile per i partiti funziona meno o per nulla. La necessità di appartenere a qualcuno cammina nel quotidiano, serve per lavorare, per nutrirsi in fase di borsa nera e crisi alimentare, spettri che nessuno avrebbe immaginato. Poi la politica fa i suoi giri di valzer. Nella seconda città-porto Hezbollah sostiene l’ex ministro Karami, figlio e nipote di altri ministri, tutti sunniti, lui è l’ennesimo affarista di governo. Un’apertura che avrà un ricambio di favori. “Mesci al-alhal” dice un proverbio che suona più o meno “le cose vanno avanti”. Dove, l’elettore non sa.

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