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venerdì 4 marzo 2022

Peshawar, la bomba

Tornano le bombe e i corpi sventrati in medioriente. Mentre l’attenzione mediatica è concentrata sullo scenario ucraino, dove i venti di guerra non tendono a fiaccarsi e investono anche un impianto nucleare, la moschea sciita di Peshawar si riempie di sangue innocente. Nel corso della preghiera del venerdì un commando non identificato ha attaccato a colpi di kalashnikov la vigilanza esterna, mentre due miliziani penetravano nel luogo di culto. Un sopravvissuto ha dichiarato alla polizia, che sostiene d’aver avviato indagini: “E’ stato un attimo, non ho fatto in tempo a girare gli occhi che mi si sono riempiti di polvere. Una deflazione tremenda, corpi mutilati e lamenti”. Oltre a trenta cadaveri si contano per ora sessanta feriti e si teme che molti non ce la faranno. L’area centrale nel quartiere Namak Mandi, dove sorge la moschea Kosha Risaldar e lo storico bazar Qissa Khwani, è stata isolata dalle forze dell’ordine, sebbene il nucleo che ha perso il kamikaze pare scomparso nel nulla. Sebbene finora nessuna sigla armata ha rivendicato l’azione, il pensiero vola agli agglomerati dell’Isis Khorasan che agiscono sul confino afghano-pakistano e che negli ultimi giorni hanno riproposto agguati, dopo un periodo di stanca. Il premier Khan e il ministro dell’Interno Rashid hanno emanato comunicati di condanna per l’attentato e un ritorno a barbare esecuzioni di gente comune che seminano odio e morte. Note del ministero fanno riferimento alla “larga cospirazione” che riprende fiato. Quella del maggiore gruppo fondamentalista Tehreek-e Taliban, con cui l’esercito s’era duramente scontrato negli ultimi anni, subendo attentati strazianti:  alla scuola dei familiari di militari proprio a Peshawar (145 vittime totali, di cui 132 bambini e ragazzi), che resta nella memoria dei due fronti contendenti. 

 

Potentissimo quello della lobby militare, condizionante sulla politica che cerca di barcamenarsi con l’altra ingombrante presenza interna: il fondamentalismo organizzato, non solo dei gruppi marchiati come terroristi. Negli ultimi mesi del 2021 Khan aveva aperto le porte a un confronto coi Tehreek Labbaik Pakistan che, manifestazione dopo manifestazione, avevano bloccato il traffico commerciale fra il nord e il sud del Paese. In maniera tutto sommato pacifica ma determinatissima, organizzando giganteschi sit-in sulle maggiori vie di transito. Volevano si applicasse rigorosamente la Blasfemy law contro le minoranze cattoliche e ahmadi presenti sul territorio. Cedendo alla loro pressione, liberando l’incendiario leader Rizvi accusato di arringhe fondamentaliste e per questo arrestato, fra governo e Labbaik s’era aperto un confronto conclusosi poi con un nulla di fatto. Ma come nelle madrase deobandi si continua a predicare contro gli infedeli, così l’estremismo politico si ripresenta con l’arma del ricatto di caos e sangue. Khan, che l’anno prossimo dovrà affrontare elezioni tutt’altro che tranquille, è fra due fuochi. Cerca di mostrarsi lungimirante per l’economia nazionale prendendo a cuore, fra l’altro in un contesto mondiale intricatissimo, la questione energetica. Da qui il suo viaggio a Mosca per discutere del Pakistan Stream nel giorno in cui Putin scatenava l’intervento oltre il confine ucraino. E non celando mire egemoniche regionali verso il malandato e abbandonato Emirato afghano. Se dietro l’attentato di stamane ci siano i talebani pakistani, i loro alleati dell’Isis Khorasan o il più potente gruppo taliban di Kabul quello degli Haqqani, sarà tutto da scoprire. E non lo farà certo l’Intelligence interna, che coi turbanti tuba non da oggi. Di fatto il quadro dell’instabilità nel popoloso e nucleare Paese Islamico prosegue. 

 

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