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sabato 26 febbraio 2022

La potenza indiana non può pensare alla crisi ucraina

Commentatori indiani dipingono il Paese
, e verosimilmente il leader Modi, come “un coniglio smarrito dalla luce abbagliante di due fari” - l’uno americano, l’altro russo - davanti alla richiesta del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di pronunciarsi sui risvolti della crisi ucraina e dell’invasione di quei territori da parte dell’esercito moscovita. L’astensione di Delhi riflette quell’abbaglio che continua a tenerla legata ai due giganti mondiali, tornati pur indirettamente contendenti nel vecchio continente. Un motivo cogente può essere la perdurante tensione a due passi da casa con l’altro gigante globale suo nemico: la Cina. La geomorfologia del Ladakh, dove reparti dei due eserciti si fronteggiano da due anni, non facilita manovre militari come le pianure ucraine, né via terra né via aria. Tant’è che negli screzi di confine a cinquemila metri d’altitudine, i reparti sino-indiani si sono confrontati a colpi di bastone senza metter mano alle armi. Presi dalle proprie beghe, Delhi e Pechino hanno una visione asio-centrica del mondo, osservano distaccati le smanie neo-imperiali di Putin, tranne che per le ripercussioni sui mercati internazionali. Ovviamente quello energetico di cui entrambi hanno dannato bisogno, ma in modo meno assillato di un’Unione Europea gas-dipendente da Mosca. Ed è proprio il mercato globale e il prodotto che in esso sopravanza lo stesso smercio d’idrocarburi, quello delle armi, a creare lo sbandamento del premier indiano. Condannando l’azione offensiva russa e appoggiando le dure sanzioni americane contro Mosca, l’India rischia d’infastidire un fornitore affidabile seppure in buoni rapporti con la Cina. Non facendolo irriterebbe l’alleato di Washington attivo su un quadrante geostrategico che s’allarga a Giappone e Australia. Eppure questo bilanciarsi di Modi con un parziale autonomia strategica, militare, politica potrebbe non durare a lungo. La sua recente telefonata a Putin con un richiamo a un ‘onesto e sincero dialogo con l’amministrazione ucraina’ avveniva mentre carri, aerei e truppe russe già svolgevano operazioni militari con una determinazione e un’intensità che non lasciavano dubbi sulle intenzioni non solo aggressive, ma d’annessione di territori. 

 

Mentre un servizio della CNN evidenziava la delusione di Washington perché una delle potenze atomiche alleate nello scacchiere asiatico non denunciava la campagna militare russa, né si pronunciava sulle misure d’embargo. Il problema è che avallare le sanzioni americane comporterebbe ritardi, se non il blocco, delle attese forniture belliche di missili Almas-Antey S-400, da piazzare appunto nella regione del Ladakh. O delle forniture di armi leggere, kalashnikov e simili, per le operazioni repressive dell’esercito in Kashmir. In più le sanzioni limiterebbero il rifornimento di alcune componenti necessarie all’industria bellica russa. Così i vertici delle Forze Armate hanno avvertito il governo di Delhi che i mancati rifornimenti potranno rivelarsi controproducenti nei mesi estivi,  quando con lo scioglimento delle nevi il faccia a faccia coi cinesi nella zona himalayana riprende vigore. Discorso simile per forniture militari marine: quattro fregate Krivak IV, costruite a Kaliningrad, per un costo di 500 milioni di dollari cadauna potrebbero registrare ritardi. Le fregate della classe Admiral Grigorovich hanno avuto a che fare proprio con la crisi ucraina già dal 2015, in quanto era la locale azienda statale Zorya-Mashproekt a fornire le turbine a gas per le navi. Da quel momento le turbine non furono più spedite ai cantieri sul Baltico, gli approvvigionamenti giunsero dalla russa Saturn, specializzata in motori aeronautici. Nell’ultimo ventennio, e dunque anche sotto l’attuale governo Modi, le forniture belliche indiane sono state divise fra Stati Uniti e Russia. Con un atteggiamento accomodante Washington ha desistito dal censurare, tramite il cosiddetto Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act, i dispositivi missilistici (sempre S-400 russi) dislocati da Modi nel Punjab. Alla ‘tolleranza’ americana il governo indiano aveva risposto acquistando per un miliardo di dollari il sistema missilistico NASAMS-2 teso a fortificare lo ‘scudo difensivo’ nazionale. Una commessa da un miliardo di dollari incassati dall’industria bellica americana. Uno dei venti miliardi convogliati da Delhi per il riarmo nazionale, altri tre hanno riguardato l’arsenale atomico aeronautico.


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