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giovedì 14 ottobre 2021

Regeni, processo all’omicidio di Stato

Il processo che s’avvìa a Roma per l’assassinio di Giulio Regeni - compiuto al Cairo dopo il noto rapimento del 25 gennaio 2016 e la successiva settimana di torture da parte delle Forze di Sicurezza egiziane - ha quattro imputati: un generale (Sabir Tariq), tre colonnelli (Usham Helmi, Mohamed Ibrahim, Abdelal Sharif). Di fatto contumaci. A loro i magistrati italiani non hanno potuto notificare gli atti d’accusa poiché l’Egitto non ha mai fornito i recapiti domiciliari. Un particolare che potrebbe immediatamente produrre un rinvio del processo stesso. Un passo significativo ha compiuto l’attuale governo italiano, rispetto alle titubanze dei quattro che l’hanno preceduto: costituirsi parte civile contro gli assassini. Che per come la vicenda s’è messa sin dai primi giorni con omissioni, falsità, depistaggi da parte delle autorità egiziane rappresenta un’opposizione alla volontà del regime del Cairo di coprire e difendere quei servitori d’uno Stato che appare il reale mandante dell’omicidio. Un’azione criminale che non è certo un fatto privato. Assume un respiro internazionale perché vede vittima il cittadino di un’altra nazione che in Egitto svolgeva un lavoro professionale - una ricerca su lavoratori e sindacati locali - e che per questo è stato pedinato, spiato, incastrato, prelevato con la forza sino alle tragiche conseguenze. Simili trattamenti sono stati riservati a migliaia di egiziani subito dopo la presa del potere da parte del generale al Sisi già dall’agosto 2013. Un’escalation rivolta ad avversari e a ogni soggetto ostacoli col proprio operato politico, sociale, professionale (dunque attivisti, giornalisti, avvocati, docenti) la restaurazione autoritaria attuata dalla lobby militare e dai suoi sostenitori interni ed esterni. 

 

Un piano tuttora in corso che ha sbattuto in galera oltre sessantamila persone, ha dato una parvenza “legale” a processi infiniti – come quello cui è sottoposto Patrick Zaky – mirati a svilire fisico e morale dei detenuti e produrne, com’è accaduto a nomi anche noti del panorama politico e pubblico interno, il decesso. Per ragioni organiche di sopravvenuto stress, per malattie non curate, per induzione al suicidio. Tale meccanismo criminale produce effetti deleteri sulla stabilità emotiva e psicologica dei cittadini che temono di finire nell’infernale rete di sospetti, vessati dall’accusa di tramare contro “la sicurezza nazionale” e triturati da una carcerazione infinita. Poiché se si reclamano violazione di diritti e di libertà personali si può essere accusati di terrorismo, in pochi hanno denunciato le sparizioni di amici e parenti, sparizioni che dopo anni paiono definitive. Aver ritrovato il cadavere martoriato di Giulio ha dato adito, inizialmente, all’ipotesi d’un complotto rivolto contro Sisi in persona. Col passare del tempo, con l’orientamento preso dai vertici dello Stato egiziano a difesa dei suoi killer, quell’ipotesi si dimostra una boutade. Forse fatta circolare dagli stessi apparati repressivi, cui la questione è “sfuggita di mano” e da lì la pasticciata sequela di bugie, montature, ulteriori assassini. Per accreditare un presunto rapimento di Regeni a scopo di rapina, i mukhabarat hanno passato per le armi cinque sprovveduti malviventi, a loro magari noti oppure no. Anche questa è un’ipotesi, mancano prove. Anche perché l’Egitto ha sempre impedito ai procuratori romani, durante le proprie missioni ispettive al Cairo, d’indagare adeguatamente su tutti i risvolti del caso Regeni e degli intrighi conseguenti. 

 

Non c’è, dunque, solo una mancanza di collaborazione. Unanimemente magistratura e politica del grande Paese arabo voltano le spalle alla richiesta di verità invocata non tanto da familiari, amici, attivisti dei diritti, ma dalla stessa nazione italiana. Finora quest’ultima aveva invocato cooperazione, evitando gli strappi di gesti clamorosi quali il ritiro dell’ambasciatore premessa di rotture diplomatiche. La linea economica, proficua per gli scambi fra i due Paesi, e la rinnovata linea geostrategica nel Mediterraneo orientale e in Medioriente che hanno investito il chiacchierato regime del Cairo di compiti di supporto militare di primo piano, hanno prodotto una linea morbida verso al Sisi. Accolto in tanti consessi dove l’Italia e l’Ue puntano a mediare su temi caldissimi: stabilizzazione di aree contese in sistemi implosi come la Libia post-Gheddafi; sicurezza e difesa dagli attacchi jihadisti; controllo dei flussi migratori. Da qui sorrisi, forniture d’armi, investimenti nei progetti faraonici come il raddoppio di Suez e la New Administrative Capital, che viaggiano sul filo di prestiti con interesse e interessi di capitali anche occidentali, un via vai di denaro impossibile da intralciare con controversie giuridiche. Ecco che il volto affaristico di Sisi e con Sisi può mettere fuori gioco ogni altra questione. A cominciare da diritti calpestati, violenze perpetrate e perpetuate, sangue versato. E non sia mai che nello strappo impossibile finisca anche l’altro sfregio all’Italia riguardante la detenzione di Zaky. Potrebbe il regime del Cairo ammorbidirsi verso lo studente bolognese in cambio d’un Regeni lasciato senza giustizia? Forse Sisi potrebbe, e noi?

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