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venerdì 15 ottobre 2021

Libano, la maledizione clanista

Il tiro a bersaglio di Tayouné - la zona semicentrale di Beirut controllata, come dimostra la sparatoria di ieri, armi alla mano dalla comunità cristiano-maronita - è un’ulteriore escalation dello Stato fallito libanese. Nessun prodromo di rinnovata guerra civile, c’è da sperarlo vivamente, ma che la vita a Beirut e dintorni abbia perso qualsiasi connotato di civiltà è un dato di fatto. Le uccisioni dei manifestanti sciiti da parte di cecchini maroniti (sebbene le Forze Libanesi, partito guida dello schieramento, smentiscano, i sospetti sono tanti) ripropongono una palese realtà: la pace-armata fra etnìe e confessioni, la spartizione dei poteri, di zone della capitale e del Paese mantenendo la tossica presenza di clan familiari che tutto decidono sulla testa di quattro milioni di cittadini-sudditi che possono solo accettarne la protezione, ha fatto il suo tempo ma non ha alternative. Anche perché le quattro entità della nazione svuotata d’identità - sunniti, sciiti, maroniti, drusi - non vogliono cambiar passo. Non vogliono perdere un briciolo del potere acquisito, anche quando questo è svuotato di tutto, alla maniera dei bancomat che rilasciano appena qualche banconota, come le scassate casse del Tesoro privato di fondi da un ceto politico corruttibile e corrotto, come il buio che segna le notti beirutine dalle Corniche all’entroterra per il collasso energetico. A un dramma che fa rischiare la fame, non solo ai campi profughi tuttora presenti all’interno del tessuto urbano della capitale – ricordate Chatila? è sempre lì e ai 400.000 palestinesi si sono aggiunti due milioni di siriani – ma nella stessa Hamra o nel teatro degli scontri di queste ore, Aïn el-Remmané, fatta di alti condomini, costruiti ex novo dopo le distruzioni degli anni Ottanta, lo spettro che può ritornare. 

 

Finora a Beirut era cambiato l’uso delle armi, diventate leggere sia fra le milizie di Nasrallah, sia per quelle di Geagea. Che s’accusano reciprocamente in merito a chi abbia fatto fuoco in questa circostanza, ma che circolano palesemente coi kalashnikov bene in vista. Eppure armamenti quasi atomici, come le 2.750 tonnellate di ammonio stipate per anni in un hangar e brillate il 4 agosto 2020, che hanno sbriciolato i quartieri a ridosso del più bel porto orientale del Mediterraneo, portandosi dietro oltre duecento cadaveri, seimila feriti sanguinanti e lasciando decine di migliaia di disgraziati senza un tetto, rappresentano una realtà che fa del Libano un fronte di guerra. Simile a quello voluto da Israele quando varca i confini di terra, aria, acqua oppure quando i mukhabarat siriani tramano con attentati come quelli che polverizzarono Hariri padre e alcuni suoi ministri. La via per un Libano diverso da quello conosciuto nell’ultimo cinquantennio che era un mix di bordello post-coloniale, un paradiso fiscale per bancarottieri, un luogo di speculazione e intrighi finanziari, una casamatta del conflitto mediorientale, la culla d’una sanguinosissima guerra civile, è fallita. Il Libano stesso è uno dei vari Stati ammuffiti che il colonialismo di ritorno palpeggia cercando una soluzione che non sa offrire, mentre i miliardari regionali suoi alleati cercano di plasmarne a piacimento l’orizzonte per trarne vantaggi più o meno espliciti. 

 

Resta una parvenza di comando in chi guida lo Stato fantasma, ultimamente Najib Mikati, proveniente dall’ennesimo clan affarista: un fratello fondatore dell’Arabian Construction Company, una delle maggiori società edili mediorientali con sede ad Abu Dhabi, e lui stesso, il premier Najib, collocato da Forbes in testa ai più ricchi magnati libanesi. Tanto denaro per qualcuno e stenti per un popolo sempre più misero e disperato sia che preghi in moschea sia in cattedrale. Poi c’è la protesta di ieri, militanti di Amal ed Hezbollah che sfilano verso il Palazzo di Giustizia e vogliono fermare le indagini del magistrato Tarek Bitar sull’esplosione del porto. Lui è descritto fuori da logiche di affiliazioni e schieramenti. Un giudice diverso da Fadi Sawan, che l’aveva preceduto, ed era stato contestato dai raggruppamenti sciiti perché cresciuto all’ombra della comunità maronita, passando da giudice istruttore a Baabda al Tribunale militare quale esperto di terrorismo. Ma anche Bitar rivolto l’attenzione dell’inchiesta sui ministri Zaiter e Khalil. Il primo vicino ad Amal, con incarichi di responsabile di vari dicasteri: Difesa, Agricoltura, Lavori Pubblici, Industria, Affari Sociali. Il secondo amicissimo e sodale di Nabih Berri, presidente del Parlamento libanese oltreché incontrastato raìs del Movimento Amal, ancora oggi a ottantatré anni suonati. Così l’attivismo sciita è sceso in piazza per azzerare un’indagine che addita taluni politici come irresponsabili, e i cecchini maroniti hanno cercato e trovato il morto. Anzi, i morti. Anche Hezbollah ha estrapolato le sue armi, e la faida più che lotta politica prosegue in una Beirut amara e spettrale.

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