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venerdì 27 agosto 2021

Haqqani, i cuori neri taliban

Sfuggente sotto il suo mantello, e misterioso, Sirajuddin Haqqani, inseguìto da cacciatori di scoop - rilasciò una breve intervista a David Chater per Al Jazeera nel 2010 - e dai cacciatori di taglie - la Cia aveva prezzato la sua testa dieci milioni di dollari - è l’uomo indicato dagli analisti come il conquistatore effettivo di Kabul. Colui che insieme al capo dell’ala militare talebana Yaqoob (comunque vicino al leader Akhunzada e al diplomatico Baradar) ha voluto accelerare i tempi per la presa della capitale. Mettendo a nudo l’affanno statunitense per l’uscita dal Paese, l’assalto agli aerei in pista e in volo, l’ansia di fuggire degli afghani collaboratori degli occidentali, di quelli occidentalizzati, di coloro che pur col cuore infranto lasciano il Paese, o vorrebbero farlo, perché la sola vista dei turbanti e dei loro progetti gli fa accapponare la pelle. Di Sirajuddin che è figlio d’arte, l’arte della guerriglia vera, non sognata e promessa come vagheggia Ahmad Massud, si raccontano le oscillazioni politiche, di leader che è con e contro le stesse persone, che poi sono i compagni d’un islamismo rivisitato in chiave fondamentalista. Ancor più del padre Jalaluddin, ex mujahhedin antisovietico tutto d’un pezzo e lui stesso signore della guerra accanto a Younis Khalis, Sirajuddin vuol mostrare coi fatti d’essere un capo, e i fatti sono azioni di guerra. Nel 2008 si diceva avesse in animo di far fuori il presidente Karzai, progetto inattuato, ma nel suo entrare e uscire dalla Shura di Quetta, prima, durante e dopo la presenza del mullah Omar, c’è da una parte la voglia di protagonismo, dall’altra una sorta di doppiogiochismo personale in linea con quelle frequentazioni che la cosiddetta “Rete di Haqqani” mantiene con l’Inter-Services, l’Intelligence pakistana. 

 

Foraggiati, aiutati dagli 007 di Islamabad, spesso in contrasto con altre strutture militari nazionali, sin dall’origine dialogante con Al Qaeda, il clan Haqqani è non solo la variabile eterodossa per eccellenza della galassia talebana, ma come si suol dire mantiene il piede in più staffe. Se Sirajuddin nei mesi scorsi, per chiudere la partita della conquista del Paese, ha spinto più sull’accelerazione militare in opposizione al dialogante Baradar, nella delegazione di Doha sedeva anche suo fratello, Anas Haqqani, finito anni addietro in carcere e condannato a morte, ma tuttora vivo, vegeto e operante. Per chi? Ufficialmente per i talebani ortodossi, ma i legami col fratello maggiore non sono solo quelli di sangue. Per non dimenticare altri membri di famiglia: lo zio Khalil, il cognato Yahya, e altri elementi della tribù Zadran, attivi in quella terra di nessuno che sono le Fata (le Aree tribali federali), e che spaziano dal nord Waziristan, in terra pakistana,  alla provincia di Paktiya, a sud di Kabul. Signori del territorio, oltre che di guerre e affari. Come ce ne sono altri, ma un clan potente e temibile, responsabile dieci anni addietro dei maggiori attentati afghani (Hotel Intercontinental di Kabul nel 2011, a seguire attacchi all’ambasciata americana, al quartier generale Isaf, al palazzo presidenziale, alla Direzione della sicurezza afghana sempre nella capitale). Per questo gli Haqqani si guadagnarono il marchio di superterroristi da parte della Casa Bianca. Da quando, era il 2015, anche in Afghanistan comparve la sigla Isis con tanto di sangue sparso e morti, s’è cercato di comprendere chi fossero i suoi miliziani. L’ISPK che indica lo Stato Islamico del Khorasan, regione assai vasta, sconfinante in Iran, Turkmenistan, Uzbekistan e Tajikistan, ha avuto solo sul suolo afghano azioni di guerriglia, divenute dal 2017 crescenti per un motivo preciso: evidenziare presenza, potenza di fuoco, distruzione, morte soprattutto sui civili. 

 

Mentre i taliban di Quetta continuavano a colpire obiettivi militari e politici afghani, l’ISPK assassinava studentesse, madri e neonati, gente innocentissima e innocua, mostrando non solo folle spregio per la vita, ma rubando scena e spazio agli altri talebani. A mettere mano a ogni sorta d’esplosione, compreso il martirio come ieri ad Abbey Gate, erano talebani dissidenti, del Khorasan appunto, provenienti anche dai gruppi tribali delle Fata. Gli Haqqani sono sospettati di tramare con loro. Così l’orribile attentato che nell’aeroporto di Kabul ha squarciato i corpi di chi era in fila, e le speranze di chi vorrebbe ancora partire, rappresenta un espresso monito ai nuovi padroni del Paese. Non gli statunitensi incapaci pure di governare la fuga. Non i transfughi del vecchio regime, Karzai e Abdullah, che gli uomini di Baradar hanno consultato per tre giorni e poi riposto ai domiciliari. La sfida è lanciata ai pretenziosi turbanti di governo, di potere, di gestione d’uno Stato che non esiste e non si sa se e come costruire, a cominciare dallo spirito di chi dalle città fugge e di chi nei villaggi abbassa lo sguardo e obbedisce, perché dopo la frusta può arrivare il colpo di kalashnikov. Il quadro che si prospetta è addirittura più tragico. E sembra un paradosso, dal momento che ci sono talebani più criminali degli attuali sedicenti vincitori, quest’ultimi devono comprendere se il terreno della sicurezza non gli franerà sotto i piedi. Oppure la guerra per il comando vedrà un secondo atto. Nella destabilizzazione dello stesso possibile Emirato dell’Afghanistan c’è sicuramente - ma può non essere il solo - il cinico vicino pakistano. Se gli Haqqani sono con loro e col rilancio del terrore generalizzato firmato Isis del Khorasan, si scoprirà. Oppure no, come del resto parzialmente celate rimangono le manovre dei molti nemici d’una nazione afghana.

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