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giovedì 19 agosto 2021

Afghanistan, issare una bandiera infangata

Fanno più male le promesse di Zabihullah Mujahid, su cui molti afghani, ancor più se donne, storcono il naso o l’addio del presidente Ghani che prima di squagliarsela s’è autoincensato ancora una volta come statista, sostenendo che quella partenza serviva a evitare martiri e la distruzione di Kabul? Indubbiamente entrambi, specie se il sangue inizia a scorrere, non solo nella caotica illusione di fuga dell’aeroporto di Kabul, ma per rivolte di strada come a Jalalabad, inseguendo la speranza simbolica d’una bandiera. In tanti temono l’Afghanistan del futuro, ma quello recente si palesa con tutto lo sfregio alla popolazione provocato da un sedicente ceto politico. Se dei ragazzi si fanno ammazzare nello spontaneistico desiderio d’issare la bandiera afghana perché rigettano lo stendardo talebano, chi ha infangato quella bandiera ha la spocchia di parlare tuttora della nazione. Il tecnocrate formato dalla Banca Mondiale ha portato con sé negli Emirati Arabi un gruppone di duecento yesmen e diverse casse di denaro. Centosessantanove milioni di dollari si dice. Lui ovviamente nega. Aveva imparato a manipolare la politica dai suoi mentori che l’hanno spinto, promosso e sostenuto alla carica anche con le armi, quando nelle presidenziali del 2009 la vittoria risultava pesantemente macchiata da brogli. Abdullah, l’avversario, riceveva l’appoggio d’un copioso numero di signori della guerra che gli avevano garantito voti a fiumi. Però la Commissione Elettorale assegnò il successo allo “studioso” della Columbia University, ritenuto dallo sponsor americano più presentabile per la farsa geopolitica messa in atto. Si trattava pur sempre d’un presidente-fantoccio, come il predecessore, ma l’aria di esperto di finanza e le velleità intellettuali lo facevano vendere bene agli occhi della comunità internazionale, anche quella che partecipava alla Isaf Mission e sborsava denaro per gli aiuti al Paese. Abdullah non voleva far la figura del raggirato e mise all’erta le bande dei Warlords, pronte ad agire di kalashnikov e granate. 

 

Fecero da pacieri Karzai stesso, che con quest’ultimi aveva confidenza  non foss’altro per averne insigniti alcuni con cariche di governo, e la Cia che usò suoi reparti speciali a protezione del presidente prescelto. Costui, dopo un avvìo senza enfasi, iniziò a calarsi nel ruolo e a ben giostrare affari propri in quelli della nazione. Del resto aveva visto all’opera Karzai, clanista che faceva proteggere il business del fratello narcotrafficante dalle stesse Intelligence occidentali presenti in loco. Ghani però non aveva le entrature del gruppo Popalzay, brigava più nei Palazzi delle multinazionali interessate agli affari sul sottosuolo. S’impegnò molto per il progetto dell’oleodotto Tapi: 500 milioni di dollari l’anno per diritto di passaggio sui settecento km di tubi in suolo afghano, in un percorso che dal Turkmenistan deve portare gas all’India. Da quegli introiti, come per i contratti sottoscritti anni prima da Karzai con la cinese China Metallurgical Group Corporation, potevano scaturire consistenti storni di denaro sui conti privati presidenziali. Questo furbetto vanaglorioso s’ingegnava a scrivere con la mano destra Correzione dello Stato fallito (è un suo saggio) mentre allungava l’altra sugli aiuti internazionali, costretto a spartirli coi boss della guerra e degli affari che, a seguito del primo incidente sull’elezione, aveva imparato controvoglia a ingraziarsi. Da alcuni, l’orso uzbeko Dostum, ha ricevuto i servigi armati fino a quando  l’ex generale è rimasto sobrio e non è dovuto riparare all’estero dopo stupri e risse fra clan. Iracondo, pettegolo, ma anche introverso o fintamente populista, quando veste abiti della tradizione locale nei quali compare come una maschera carnascialesca, Ghani ha gestito male anche gli ultimi mesi del disfacimento. Ha scontentato militari nelle caserme e civili nel Palazzo, rimpiazzando competenze con personaggi servili. Ha permesso che proseguisse la stessa corruzione che al primo insediamento aveva annunciato di combattere. E’ questo ceto che i giovani afghani in rivolta dovrebbero ricordare sollevando la bandiera d’uno Stato che non c’è. 

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