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martedì 9 giugno 2020

Accordi a Kabul, linea della pace e sdoganamento talebano


Il mantra è l’accordo di pace, e ora che a Kabul gli uomini dei Palazzi si sentono considerati dai taliban non si parla che di questa, fondamentale, questione. Finirla con mattanze e stragi è un interesse comune. La stessa popolazione può esserne contenta visto che fra i due fronti in guerra, è lei a contare la maggioranza delle vittime. Quel che sta scaturendo dopo l’ultimo ‘cessate il fuoco’, che regge dalla fine del Ramadan, è un confronto sui ruoli di potere da assumere e, parole a parte, bisognerà verificare ogni passo. Comunque le due delegazioni si fan forti del sentire della gente che appare pragmatico: “L’importante è che finisca tutto: lo spargimento di sangue, le bombe sulle nostre case, le mogli vedove, i figli orfani” riporta un’agenzia governativa. Vero. Ma sembra propaganda, anche perché segue un’altra affermazione che sull’onda della ‘linea della pace’ calca la mano sul necessario compromesso che dev’essere applicato dai due fronti. E nel baratto entrano i diritti, umani e delle donne. Così una seconda ‘voce del popolo’, riportata dalla stampa afghana, afferma: ”Diritti umani e delle donne sono importanti per chi vive nella capitale, nelle aree sperdute del Paese chi ha perduto i figli pensa alla fine delle ostilità e basta”. Dunque chi ha orecchie per intendere, intenda. Poi viene mostrato come i negoziatori del gruppo di governo, che appartengono prevalentemente alla sponda di Abdullah, tentino di convincere i ‘coranici’ della necessità d’introdurre negli accordi proprio diritti e libertà d’espressione.

I taliban annuiscono. Ormai i loro turbanti risultano più diplomatici delle feluche. Addirittura concordano in tutto, l’importante è che questi diritti non confliggano con la legge islamica. Dice uno dei loro portavoce, Suhail Shaheen: “Nel futuro sistema gli ulema e gli esperti di diritto islamico discuteranno e formalizzeranno le leggi così che nessun soggetto (uomo o donna, ndr) sarà deprivato dei propri”. A suo dire l’unica questione non negoziabile, è la guida islamica del governo, tutto il resto non dev’essere deciso ora. Prende tempo, lanciando una sorta di chi vivrà vedrà. Nel duetto mister Rahimi, pontiere e portavoce di  Abdullah, risponde sibillino che: “Aggirare richieste radicali con idee radicali, è una prassi dura da digerire”. Messaggi in codice da decriptare. Quel che il fiuto ci dice è che, come in altre circostanze, si stia patteggiando per il potere, un’altalena più o meno violenta che l’area dell’Hindu Kush ha conosciuto dagli anni Sessanta. E oltre mezzo secolo di storia afghana, accanto agli appetiti esterni di chi vuole trarre vantaggi da quest’immenso e ingovernabile altopiano polveroso (ora riconducibili al controllo aereo da parte statunitense e allo sfruttamento del sottosuolo da parte cinese), ripete un ciclico scontro fra signori della guerra e fondamentalismi politici interni più o meno ortodossi (talebani e islamisti del Khorasan). Perciò l’auspicabile spinta della pace - osannata dai dialoganti opportunisti filoccidentali e miliziani scannatori - rischia di rimanere un accordo scritto sulla sabbia. Capace di sommergere sotto la polvere dell’intolleranza quei diritti tanto chiacchierati, ma usati solo come maschere dai pacificatori dell’ultim’ora.   

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