Ha viaggiato da Occidente il coronavirus che s’è affacciato in
Afghanistan. Come dappertutto nel mondo ha viaggiato con gli uomini,
soprattutto lavoratori migranti che da metà marzo hanno attraversato il confine
in direzione di Herat rientrando dall’Iran. Anch’essi avevano perso lavoro per
la progressiva copiosa serrata di tante attività rurali di raccolta di frutta e
ortaggi, di facchinaggio nei grandi centri di smistamento merci e nei bazar.
Alla frontiera, che ora è stata chiusa, il flusso crescente è diventato una
marea. Ammette il governatore della provincia di Herat, che il non numeroso
personale sanitario di controllo, riusciva a mala pena a misurare la
temperatura al 10% dei cittadini che rientravano. Il trasloco di per sé poteva
essere fonte di contagio: i bus erano zeppi, così come le camere prese in
affitto negli spostamenti di ritorno per un viaggio che, verso Kabul o ancora
più a est a Jalalabad dura due-tre-quattro giorni. Sono state giornate di
enorme calca e promiscuità, e ora che la dogana è stata chiusa c’è chi
attraversa una frontiera porosa con propri mezzi, finanche a piedi e soprattutto
senza controlli sanitari. Il bollettino dell’Organizzazione Mondiale della
Sanità stima poco più d’un centinaio di casi, ma non è una statistica è solo un
numero che rileva gli episodi eclatanti. Come altre situazioni critiche di Paesi
mediorientali le carenze strutturali non consentono di arginare una pandemia, e
se da una parte un certo isolamento delle persone è imposto da ragioni
d’incolumità per la presenza di attentati da parte dell’Isil, la coabitazione
nelle povere case delle città può infiammare eventuali focolai di chi porta il
virus da fuori. Per ora l’epicentro del Covid-19 è Herat, che conta un milione
e mezzo di abitanti stabili e dove la situazione della sicurezza è più calma
che altrove. Fra l’altro quattro militari italiani del contingente Nato di
stanza in città risultano positivi. Proprio quel che s’è visto nei giorni
scorsi con gruppi di persone a contatto di gomito nelle moschee, nelle strade,
nei parchi è l’esatto contrario d’un comportamento di prevenzione e
contenimento epidemico.
Il ministro della Salute Feroz ha lanciato
avvertimenti anche televisivi additando il pericolo d’una situazione simile a
quella cinese. Ma finora nessuna città è stata bloccata, s’inizierà proprio da
Herat dopodomani, con quali capacità di controllo è tutto da verificare. Quel
che è accaduto dieci giorni fa in occasione della ricorrenza del Newroz non fa
ben sperare. Il presidente Ghani aveva invitato a non riunirsi per ragioni di
salute pubblica. Non è stato ascoltato, non si sa se per la sua totale mancanza
di autorevolezza oppure per l’attaccamento della gente alla festa di primavera,
che per tante etnìe ha risvolti religiosi o infine perché non c’è coscienza del
pericolo pandemico. Del resto in molti sottolineano come un popolo sottoposto
allo stress di conflitti infiniti da oltre quarant’anni abbia un atteggiamento
talmente disincantato da sfiorare l’incoscienza. Vedere quotidianamente la
morte, respirarla con la polvere di trinitrotoluene dei camion-bomba unita alla polvere
delle strade porta la popolazione a un atteggiamento compassato, cosicché
insinuare il concetto del rischio subdolo di questo virus non è affatto facile.
E poi vediamo quanti problemi riscontrano nazioni della cosiddetta sfera del
benessere, l’Italia per l’appunto, nel procurarsi il minimo presidio
indispensabile della mascherine, nella capitale afghana può risultare
impossibile anche trovare del semplice sapone per l’igiene delle mani, non i
preziosissimi disinfettanti. Ma tornando ai dati dei cento infettati, e due
decessi, concentrati al 70% nell’area di Herat il ministero della Salute, visti
i presupposti prospetta situazioni che possono diventare tragiche con l’ipotesi
di migliaia di morti. Per un Paese che soffre da tanto tempo c’è da sperare si
tratti d’una indiretta scaramanzia, non d’un presagio.