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mercoledì 25 marzo 2020

Kabul, lo Stato Islamico attacca i sikh


Mattina di fuoco nella Kabul storica, dove un commando dello Stato Islamico del Levante ha assaltato un tempio Sikh. E’ intervenuto l’esercito che, nella nota diffusa dal ministero dell’Interno, ha isolato il luogo dove si sono asserragliati miliziani armati, alcuni dei quali vestivano esplosivo. Notizie raccolte in loco dall’agenzia Reuters riferiscono di quattro vittime accertate e alcuni feriti, ma i numeri potrebbero aumentare perché a Gurdwara, la ‘Porta del guru’, l’attacco prosegue. Ad attuarlo, com’era accaduto di recente, l’Isil che vuole prendersi la supremazia delle stragi ora che la maggioranza talebana è ferma per il patteggiamento con gli Stati Uniti. Ma i cosiddetti accordi di pace non pacificano affatto il Paese e tantomeno la capitale che risulta sempre più vulnerabile a ogni genere d’agguato. Il fronte jihadista l’ha caratterizzato da tempo in senso religioso, colpendo senza pietà le minoranze, dalla più numerosa hazara di fede sciita, agli ormai poco numerosi sikh e hindu. Queste componenti, già all’epoca della guerra civile (1992-95), migrarono verso l’India, poiché erano oggetto di stragi frequenti, all’epoca perpetrate da Signori della guerra d’origine pashtun. Quando, l’anno seguente, i talebani presero il potere le famiglie sikh rimaste subirono, accanto a ostracismi sociali e politici, anche un’identificazione visiva, con l’obbligo d’indossare una fascia gialla sull’abbigliamento.
Le cose non cambiarono anche dopo l’allontanamento del governo talebano. L’amministrazione Karzai cercò di limitare la stessa rappresentanza simbolica sikh nella Loya Jirga e questo rappresentò un ulteriore motivo di loro migrazione a Oriente. In verità quando l’hazara e sciita Khalili fungeva da vicepresidente di Karzai, promise ai sikh di rispettare l’articolo 22 della Costituzione che proibisce le discriminazioni delle minoranze, ma fu una speranza inattuata. Ora a Kabul sono censite 300 famiglie sikh, dunque il numero della minoranza s’è ulteriormente ridotto dalle tremila unità conteggiate un quindicennio fa. Negli anni Settanta i sikh afghani, lì insediati dalla fine del XVIII secolo, ammontavano a centomila. Gli antropologi della geopolitica che si sono interessati alla loro situazione ricevevano come motivazione del malcontento non solo l’assenza di qualsiasi integrazione e il rispetto di un’identità personale, ma una vera persecuzione conseguente al marchio di “infedeli” attribuitogli dalla maggioranza islamica. Al di là di veri pogrom, la vita per gli appartenenti al gruppo resta difficile. Nella migliore delle ipotesi vengono derisi o insultati, spesso derubati per via anche di poveri averi, senza che le autorità intervengano a loro tutela. Gli episodi di aggressioni a bastonate da parte di altri cittadini non sono rari anche nei luoghi sacri dove i sikh praticano la cremazione dei defunti.

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