L’India dei poveri, difficile da quantizzare e già in aumento per
la recessione che negli ultimi tempi ha fatto scivolare il Pil a 4.7, il suo
punto più basso da circa un decennio, allarga le file per il disastro del
Covit-19. In dati di contagio sono tuttora bassi perché il monitoraggio della
popolazione è scarsissimo, sebbene nell’ultima settimana si siano iniziati a registrare
anche decessi (all’Organizzazione Mondiale della Sanità risultano 887 positivi
e 17 vittime). Il governo Modi che, in bella compagnìa di ben più organizzati
Paesi del mondo globalizzato, aveva sottovalutato il pericolo della pandemia
sta affrettandosi a prendere qualche misura e ha devoluto 20.6 miliardi di euro
a un primo contenimento. Negli ospedali delle maggiori metropoli la situazione
è tutt’altro che agevole, mentre i presidi sanitari nelle località rurali di vari
Stati sono semplicemente inesistenti. Alla nota difficoltà di applicare non
solo un adeguato isolamento, ma anche il contenimento di possibili contagi
tramite la distanza sociale, a causa dell’alta densità di popolazione, s’aggiunge
la perdita del lavoro degli occupati in aziende che hanno dismesso l’attività
per la momentanea serrata decisa dal governo. Si tratta di attività centrali e
statali, che sicuramente hanno ripercussioni sull’indotto, pensiamo solo alla
catena dei cosiddetti lunch boxes (i
fattorini che trasportano milioni di contenitori di cibo preparato dalle
famiglie per gli impiegati pubblici e privati) ora rimasti senza lavoro, ma è
in difficoltà anche la catena del ”fai da te” che in questa fase si blocca e
non si sa per quanto tempo. Il governo di Delhi ha anche fermato i
trasferimenti interni, almeno tramite trasporti pubblici, soprattutto treni e
autobus, cosicché giorni fa pendolari e migranti interni hanno dovuto
rincorrere l’ultimo mezzo utile.
Ora si registra una trasmigrazione a piedi, perché chi non
ha più lavoro, pur di rientrare verso i luoghi d’origine e arrangiare qualcosa,
non tralascia questa soluzione. Una delle aree di maggior ritorno è
l’Uttar Pradesh, lo Stato dei musulmani, un’area popolosa e povera
che conta migranti d’ogni genere all’estero e all’interno. Chi ha assistito a questa
marcia forzata la descrive come un’emergenza a sé, poiché realizzata anche da
soggetti deboli, famiglie con donne e bambini. La polizia nei punti d’ingorgo
interviene imponendo “quattro passi di distanza”, ma si capisce che si tratta
di una formalità, tanto per dire che si fanno rispettare le direttive dell’Esecutivo.
Come dimostrano i casi italiano, di altre nazioni d’Europa e degli stessi Stati
Uniti, il coronavirus non conosce confini e non differenzia classi sociali. Ovviamente
ben pochi dispongono come la regina Elisabetta, che per la veneranda età di
rischi ne corre, d’un castello per l’isolamento. E se la situazione indiana non
è quella dello sfruttamento imposto dal Raj britannico, la popolazione che da
quell’epoca è triplicata diventa in casi simili una vera zavorra, visto che
organizzare la prevenzione di 1.3 miliardi di cittadini tramite il
distanziamento appare improbo. Comunque l’emergenza peserà maggiormente sugli
strati più deboli, i milioni delle bidonville a cui le organizzazioni
caritatevoli distribuiscono gratuitamente cibo, ma anche su 87 milioni di
agricoltori ai quali la ministra delle
Finanze Nirmala Sitharaman riserva 2000 rupie, mentre 1000 andranno a 30 milioni di anziani e
portatori di handicap. Ciascuno riceverà rispettivamente 24 e 12 euro. Invece
da inizio aprile è prevista la distribuzione di cinque kg di riso o grano e un
chilo di lenticchie per 800 milioni cittadini. Così l’altra India esce allo
scoperto.
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