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lunedì 10 febbraio 2020

Egitto, salvare Zaky dalla repressione di Sisi


Qual è la colpa di Patrick George Zaky, ventisettenne egiziano, attivista e ricercatore all’Università di Bologna? Per il regime del presidente-torturatore Al Sisi lui è: un diffusore di notizie false, un istigatore di proteste di piazza, un attentatore del sistema politico e della sicurezza nazionale egiziani. In una parola un terrorista. Per questo quando la scorsa settimana, incautamente, ha provato a rientrare nel suo Paese dopo cinque mesi trascorsi per gli studi nell’Università felsinea, è stato fermato all’aeroporto del Cairo e condotto dai poliziotti in un luogo segreto. Come i cento, come i mille e i diecimila attivisti egiziani che dal 2013 subiscono un simile trattamento finendo in fetide celle di famigerate galere, dove vengono seviziati e lasciati marcire con conseguenze letali per i più deboli. Oppure spariscono, definitivamente assassinati. Alcuni, un caso a noi noto porta il nome di Giulio Regeni, ricompaiono come cadaveri violati. Di altri si perdono definitivamente le tracce e guai a cercarne notizie. Le strutture di sicurezza del Cairo possono agire verso parenti, amici, attivisti, avvocati dei diritti che cercassero di sapere qualcosa sulle misteriose scomparse. Pronti per loro le accuse di terrorismo con cui l’apparato della forza e quello politico terrorizzano novanta milioni di egiziani. Quelli che detestano tale sistema e anche chi gli strizza l’occhio per consenso o timore di finir triturato nei suoi ingranaggi repressivi.

Fior fior di associazioni internazionali dei diritti pongono da anni domande alla politica internazionale attorno alle violazioni e al clima liberticida avallato dalle più alte cariche dello Sato: il presidente Al Sisi, i ministri dell’Interno (Ghaffar), degli Esteri (Shoukry), della Giustizia (Marwan), apparati della magistratura sono implicati in prima persona in questa saga dell’infamia assassina, ma non ne rispondono. Non l’hanno fatto neppure davanti alle inchieste ufficiali dei procuratori di Roma che per due anni hanno svolto indagini per scoprire responsabili e mandanti dell’omicidio Regeni. Ufficialmente l’Egitto prigioniero del clan di Al Sisi ha ostacolato quelle indagini facendosi beffa d’una nazione che le si mostra amica, chiedendole aiuto in un’iniziativa di giustizia. In quattro anni non s’è mosso nulla e i quattro governi italiani che si sono succeduti hanno ingoiato amaro e accettato quelle infamie. Prigionieri, come sono stati e sono, degli affari economici che ci legano all’altra sponda del Mediterraneo, con l’Eni a sostenere il mantenimento dei rapporti in cambio dello sfruttamento dei giacimenti di gas, la Finmeccanica infoiata nella fornitura di armi e il quadro geopolitico della Nato che inserisce il regime militare egiziano nel gruppo degli alleati garanti del conservatorismo ideologico-sociale-militare in Medio Oriente accanto alle petromonarchie del Golfo. Per la cronaca Zaky aveva diffuso sui social media frasi come "Il governo egiziano limita il dissenso" oppure "voci contrarie non sono ammesse". E aveva la 'colpa gravissima' di collaborare con l'ong Egyptian Commission for rights and freedoms.

 

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