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domenica 16 febbraio 2020

Caso Zaky, l’Unione Europea scopre il mal d’Egitto


Ora che Patrick George Zaky, lo studente egiziano specializzando presso l’Università di Bologna risulta incastrato nel perverso sistema studiato dalla giustizia del suo Paese, che in ogni semestre, o anche meno,  aggiunge un tassello repressivo a presunti accusati di “terrorismo antistatale”, la democratica Unione Europea sembra svegliarsi dal colpevole torpore, applicato pervicacemente per anni verso taluni attacchi ai diritti umani. L’ha fatto col nuovo presidente, l’italiano David Sassoli.  Un giornalista prestato alla politica, europea per l’appunto, con l’ingresso nel parlamento di Bruxelles nel 2009, cui è seguito la scalata alla prestigiosa carica di rappresentanza. Sassoli s’è speso per la vicenda Zaky, dichiarando che l’Unione “deve condizionare i suoi rapporti con nazioni terze al rispetto dei diritti umani”. Le Istituzioni del Cairo, tramite il presidente del parlamento locale, Abdel Aal, hanno immediatamente reagito, definendo le dichiarazioni del presidente Ue “un’inaccettabile interferenza”. Nella piccata risposta, uno degli uomini-regime di Al Sisi involontariamente s’incarta, affermando: “L’imputato gode di pieni diritti, come gli altri arrestati, senza discriminazioni”, che non è proprio quel che accade agli imputati egiziani, da troppi anni. Peraltro, ora le condizioni peggiorano: il regime militare e il suo presidente simbolo, introducono un inasprimento della legge già in vigore sul terrorismo che prevederà pene estreme: ergastolo e condanna a morte.
C’è da tener presente che, come ultimamente Zaky sta purtroppo provando sulla sua pelle, l’orientamento del governo punta a considerare “terrorista” qualsivoglia manifestazione non solo di dissenso o di contrarietà a ciò che nel Paese accade dal golpe bianco del 2013, ma ogni  riferimento di cronaca e di commento delle vicende interne. Sia fatto da addetti all’informazione, giornalisti, o da blogger e da semplici cittadini sui social media o per via. Tutti controllati, sul territorio egiziano da agenti ordinari o mukhabarat, e da altri “osservatori” pure nei canali virtuali del web; visto che certe accuse mosse al dottorando, catturato mentre rientrava in patria per una visita ai familiari, riguarderebbero proprio sue espressioni comparse sui social media. Nel primo incontro coi magistrati Zaky le ha smentite, sostenendo come il profilo in questione non sia un suo frutto. Ma al di là della linea adottata dalla difesa, e le posizioni della famiglia Zaky che puntano a tener fuori il giovane da paragoni mediatici col drammatico caso Regeni, quest’ennesima vicenda ha l’amarissimo sapore che altri giovani (attivisti, giornalisti, studenti e studiosi) egiziani e il ricercatore  italiano Giulio Regeni hanno vissuto negli anni passati. E la società civile che si stringe attorno a Zaky per cercare di evitargli il peggio (che ovviamente non dev’essere l’orrenda fine che i “Servizi di sicurezza” del Cairo hanno riservato a tanti), ma anche la trafila della galera infinita, è un passo importante per risvegliare dall’indifferenza i grandi assenti del mal d’Egitto.
Costoro sono innanzitutto i politici, italiani ed europei, cui il regime di Sisi fa comodo. Fa comodo ai loro affari, economici e geostrategici, che riguardano gli armamenti da vendere perché il Cairo duetti con gli uomini forti in azione in Medio Oriente, si chiamino bin Salman o Haftar. E se serve Erdoğan e Asad, due satrapi che da anni muovono le proprie armi contro le loro minoranze e anche la propria gente. Non solo una bella fetta della politica nostrana ed estera se ne frega di quel che le accade attorno e ancor più dei diritti civili. La stessa cittadinanza, la gente comune non s’era finora allarmata per quel che accadeva ai Regeni d’Egitto nelle prigioni speciali dove si entra il piedi e si esce distesi. Oppure non risulta  neppure d’esser crepati. Poiché dei Morsi padre, l’ex presidente perseguitato, e figlio, entrambi deceduti per collasso in galera, bisogna giocoforza dare un’informazione, seppure laconica. Delle centinaia, forse migliaia, di egiziani deceduti per violenze o malattie e stenti nelle celle e nelle camere di tortura si può tacere. E di conseguenza tacitare gli avvocati dei diritti che provano a ricercarli, ma in tanti casi non sanno neppure chi e dove. Se quest’Egitto - che esiste dall’agosto 2013, quando tante anime belle della sedicente “seconda rivoluzione egiziana” che spazzava via il governo della Fratellanza osannavano la democrazia dei militari - verrà considerato non un affidabile partner, bensì un persecutore dei suoi figli, solo allora giovani come Zaky potranno sperare di poter tornare a vivere.

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