E’ nello sguardo perso
prima ancora che nella mano tesa al carnefice il dramma di certa gioventù
saudita. La foto diffusa da un’agenzia di regime che mostra il figlio del
giornalista trucidato all’interno di una sede diplomatica del regno a Istanbul
doveva servire ai Saud, e a Mohammad bin Salman, per risalire un po’ la china
d’una credibilità perduta per sempre. La scena è comunque pelosa, non diversa
da quella che abbiamo dovuto sopportare nei funerali di Stato ai nostri delitti
di mafia. Quando le Autorità Istituzionali rivolgevano alle vittime le proprie
condoglianze. Egualmente il principe ha convocato a corte i figli
dell’opinionista odiato e liquidato, appunto per manifestare il suo cordoglio.
Orfani e cittadini nel regno i due giovani non hanno potuto esimersi dal
trovarsi al cospetto del manipolatore e probabile mandante dell’assassinio. Lui
porgeva loro la mano, quelli la sfioravano increduli e atterriti. Se le
immagini parlano più di cento parole, lo scatto, l’inquadratura che la regìa
politica, oltre che mediatico-propagandista dei Saud ha voluto diffondere
rivela il clima d’ipocrisia e terrore presente nella terra dei petrodollari,
che è anche la Terrasanta dell’Islam. Quella monarchia padrona della nazione
dove sorgono alcuni fondamentali luoghi sacri della fede musulmana, che fa
della religione un marchio funzionale al suo ruolo di Stato guida nel mondo
arabo, pratica il più bieco cinismo nel relazionarsi ai sudditi e al mondo. Non
è l’unica leadership a farlo, è vero. Ma gli ultimi eventi - su cui pesa tuttora
l’incognita delle future reazioni internazionali, pur condizionata dagli
interessi incrociati che alleati, tutori, avversari di questo Paese possono
barattare per fare uscire dalla palude in cui s’è infilato il giovane factotum dei
Saud - ne svelano una totale oscenità. Resta l’angoscia sul suo potere di simulazione
e di condizionamento: quel giovane che dovrebbe e forse vorrebbe gridare lo
sdegno e l’odio verso un carnefice gli porge, pur mollemente, la mano. In un
gesto di normalità, dove oltre a una subordinazione al potente criminale, appare
la mancanza di prospettive di giustizia e di vita.
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mercoledì 24 ottobre 2018
martedì 23 ottobre 2018
Omicidio Khashoggi, il dito puntato di Erdoğan
Davanti ai deputati turchi, in quel Parlamento sottomesso al suo
potere, Erdoğan si fa portavoce di verità sul macabro complotto ordito ai danni
del giornalista Jamal Khashoggi. Ordito nella sua Istanbul, seppure fra le mura
neutrali del consolato saudita. Mura, però, parlanti che hanno consentito agli agenti
del Mıt di scovare turpi manovre. La ricostruzione del presidente turco è
lineare. Khashoggi entrò una prima volta nel consolato il 28 settembre per
ritirare i documenti per un nuovo matrimonio (con una cittadina turca). Il
passo seguente sarebbe stato la riconsegna di quelle carte e da qui può essere
partito il piano per rapirlo o eliminarlo. Il 1° ottobre l’Intelligence turca
registra l’arrivo al consolato di tre sauditi, identificati come agenti dei
Servizi. Il mattino seguente ne giungono son due voli privati altri quindici
che giunti nell’edificio diplomatico si adoperano per rimuovere l’hard disk del
sistema di sicurezza esterno. Khashoggi giungerà nel pomeriggio e non uscirà
più vivo da quella sede. Una goffa manovra di depistaggio ne mostra una
controfigura (un possibile agente saudita) vestito coi suoi panni, calzando
però scarpe differenti, particolare che viene notato, offrendo conferma di
un’azione di copertura al crimine. Un crimine inizialmente negato dalla casa
regnante di Riyadh che rigetta i sospetti lanciati fra gli altri dall’agenzia Reuters. Erdoğan dichiara di aver telefonato
personalmente al re Salman il 14 ottobre, invitandolo a unire le forze per
un’investigazione comune sulla sparizione e sulle insistenti voci
dell’eliminazione dell’opinionista del Washington
Post.
Gli ha anche chiesto notizie sulla posizione del console e sul
motivo del suo rientro a Riyadh da dimissionario. Dopo negazioni e silenzi, il
19 ottobre l’Arabia saudita ammette la morte di Khashoggi nel consolato,
fornendo la versione su una morte accidentale per soffocamento a seguito di
un’iniziativa canagliesca compiuta dal gruppo di agenti dell’Intelligence
saudita. Il riconoscimento del crimine nell’edificio diplomatico è un passo
importante, ma la Turchia chiede una collaborazione per processare sul suo
territorio i colpevoli, risalire alle cause, sciogliere il mistero sul cadavere
scomparso e i sospetti sullo smembramento del corpo che sembra essere avvenuto
con rapidità e organizzazione impressionanti. La presenza in loco di una
persona esperta nel campo, confuta la tesi di un’accidentalità della morte,
rovesciando completamente il quadro verso una totale premeditazione. Se questo
non è vero, incalza Erdoğan, dov’è il cadavere di Khashoggi? perché 15 agenti
dei servizi s’incontrano a Istanbul il giorno della sua sparizione? cosa gli è
stato ordinato? da parte di chi? E dopo le stoccate un’apertura di credito: “Non ho dubbi sulla sincerità di re Salman,
ma poiché si tratta d’un omicidio politico, esso dovrebbe essere indagato e
posto in un processo indipendente senza alcun pregiudizio”. Ovviamente è
una mano tesa tagliente, con contropartite tutte da scoprire, magari non solo
economiche. Sull’omicidio Khashoggi qualcuno inizia a pensare che il rampollo
Saud potrebbe rischiare la successione. Altri sono invece convinti che il
sangue sarà assorbito da stucchi dorati e petrodollari.
lunedì 22 ottobre 2018
Saud, la dinastia della sega per ossa
Cosa avrà ulteriormente da rivelare il presidente turco Erdoğan
sulla storia dell’orrore che da venti giorni tiene inchiodati cronisti
d’indagine, analisti e investigatori sulla linea del sangue versato e di quello
alimentato dalla sega per ossa che ha smembrato il corpo del povero Khashoggi,
lo scopriremo domani. Nell’annuncio offerto con l’enfasi che gli è propria ha
annunciato rivelazioni per martedì. Ma ormai fra verità vere e di comodo, il
quadro della vicenda è chiaro in tutti i suoi macabri lati oscuri. La versione
della corona è stata affidata al ministro degli Esteri saudita al Jubeir, il
trait d’union fra le follìe del principe bin Salman e i desideri dei tutori
statunitensi. Il viaggio del Segretario di Stato Pompeo dei giorni socrsi deve
averne definito i contorni, perciò ora si ammette che il giornalista scomodo è
morto, ma casualmente, soffocato dal manipolo di agenti dei servizi giunti a
prelevarlo per ricondurlo a Riyadh con la garanzia (sic) di assicurargli
sicurezza. I quindici 007 avrebbero agito fuori dalle direttive ufficiali, per
questo ora sono stati arrestati, gli osservatori temono che verranno
giustiziati o messi in condizione di non rivelare chi li avesse indirizzati a
Istanbul.
La presenza all’interno del consolato di Abdulaziz Mutrib,
l’ufficiale dell’Intelligence saudita in più occasioni indicato come uomo della
sicurezza ‘ombra di bin Salman’, secondo la versione di al Jubair risulterebbe casuale,
dovuta a una chiamata di uno dei due organizzatori del blitz Saoud al-Qahtani
che aveva conosciuto l’agente a Londra e lavorato con lui. Al-Qahtani, aiutante
del responsabile dell’Intelligence saudita il generale Ahmed al-Assiri, avrebbe
col superiore organizzato il sequestro di Khashoggi senza che il principe
sapesse nulla. Soffocato inavvertitamente con una presa al collo,
l’imbarazzante cadavere dell’opinionista dissidente sarebbe stato portato
all’esterno avvolto in un tappeto (sic), mentre un agente vestito coi suoi
abiti avrebbe simulato un allontanamento dal consolato. Accortosi della
goffaggine del mascheramento il manipolo assassino avrebbe rimosso i video
delle telecamere di sorveglianza che avevano ripreso l’uscita del finto
Khashoggi. Una verità ufficiale piena di falle e contraddizioni che il Mıt
turco può confutare in base alle registrazioni sonore già fornite a diversi
media, in cui si sentono voci concitate e l’inquietante presenza del ‘dottor
smembratore’, Muhammad al-Tubaigy, esperto in dissezioni e autopsie.
La sua figura, la fama professionale, le registrazioni che
ne proverebbero l’operato fanno cadere ogni ipotesi di casualità “all’incidente”
occorso a Khashoggi, nei cui confronti è stato preparato un attentato in piena
regola, secondo lo stile criminale delle Intelligence che non lasciano tracce.
Infatti l’esecuzione su un corpo forse solo narcotizzato è stata rapidissima,
la vittima è stata smembrata in una quindicina di pezzi finiti in casse di
contenimento, trasferite su Van esterni e imbarcate su due voli privati
dell’agenzia saudita verso Il Cairo e Riyadh. Sebbene gli inquirenti sospettino
che qualcosa possa essere finito anche in un boschetto non lontano dal
consolato dopo le pulizie effettuate nelle ore successive alla sparizione.
Pulizie e imbiancatura che dovevano cancellare tracce per i sopralluoghi della
polizia turca che nulla ha trovato nell’edificio. L’unica, ingombrante,
presenza sono le registrazioni sonore, comprese quelle musicali con cui il sezionatore
avrebbe ovattato il rumore della sega, distraendo se stesso dall’infame
compito. A queste versioni contrapposte la geopolitica ha già da giorni
aggiunto il licet offerto dalla Casa Bianca alla corona alleata, avallando
anche le goffe dichiarazioni con cui Riyadh scarica la sparizione sul gruppo di
agenti guidato da un binomio della sicurezza impazzito. Tutti costoro sono agli
arresti a Riyadh, la possibilità che possano narrare la propria versione dei
fatti è scarsa, come la certezza della loro reperibilità futura. Il regime
della sega per ossa punta a non lasciare tracce.
domenica 21 ottobre 2018
Afghanistan, il voto sotto le bombe
Le terze elezioni politiche afghane ritardate, anno dopo anno,
dal 2015 arrivano a scadenza pur fra attentati, sangue e vittime. Ieri a Kabul
sono morte una quindicina di persone in un attacco al seggio nella zona di Sar-e
Kotal, che aggiunte ai cittadini colpiti a Kunar, Kunduz, Tabag portano a una
cinquantina il bilancio di sangue nella sola giornata di sabato. La Commissione
elettorale ha prolungato le operazioni di voto in 400 seggi anche stamane,
poiché la registrazione elettronica aveva prolungato l’iter di iscrizione nelle
sezioni elettorali. Potevano accedere ai 5000 seggi aperti circa 9 milioni di
elettori, le notizie fin qui giunte indicano in un terzo i votanti. 2000 seggi
non sono stati attivati in quelle province che non offrivano garanzie di
sicurezza perché il territorio è sotto totale controllo talebano e questi non
consentivano alla gente del luogo l’afflusso ai seggi. E’ accaduto a Ghazni e
Kandahar dove giovedì il capo della polizia era finito sotto i colpi mortali
dei talebani. La violenza ha anche eliminato alcuni candidati, dieci sono
caduti nelle scorse settimane in agguati tesi da taliban o jihadisti dell’Isis,
su un totale di 2.565 concorrenti alla sfida elettorale.
Costoro partecipano al rinnovo dei due rami del
Parlamento: la Camera Alta (Mesherano Jirga) che prevede 102 eletti, e la
Camera Bassa (Wolesi Jirga) con 250 seggi, di cui 68 riservati alle donne. In
quest’Assemblea si ripresentava la deputata del Partito della Solidarietà Belquis
Roshan, già eletta nel 2012 nella provincia di Farah e nota per le successive
vistose contestazioni contro la presenza di Signori della guerra nelle
Istituzioni. Dalle prime notizie che ci giungono, il sostegno alla Roshan risulta
anche stavolta amplissimo e, se non ci saranno ostacoli burocratici e
soprattutto brogli, la determinatissima onorevole potrà continuare il lavoro
politico intrapreso a favore delle donne e della cittadinanza del suo
distretto. La questione dei voti truccati è un fantasma sempre presente nelle
consultazioni afghane ed è stato il motivo del ripetuto rinvio; il
riconoscimento elettronico dell’elettore, introdotto in questa tornata, ha solo
parzialmente aggirato l’ostacolo del plurivoto e delle schede già contrassegnate.
Probabilmente anche in quest’occasione si verificheranno lamentale e
contestazioni al momento dello spoglio.
Uomini del governo come il presidente Ghani hanno offerto
passerella e voto nell’ipervigilata struttura della Amani High School, sotto i
riflettori di Tolo tv, calzando sul
capo un turbante tribale, ha ricordato che questo era un passo “di diritto e responsabilità del Paese”,
rivolgendo un pensiero ai martiri della libertà, le vittime legate al voto, fra
cui ha posto anche il generale Raziq, colpito dai talebani a Kandahar. In altri
seggi stessa attenzione alla scheda nell’urna del premier Abdullah, del
ministro degli Esteri Salahiddin Rabbani, del rappresnetante dell’Alto
Consiglio di Pace Khalili gli uomini dall’oscuro passato contro cui Roshan
sollevava i cartelli di protesta nella Wolesi Jirga. Stamane la Commissione
elettorale ha iniziato ad ammettere alcune carenze negli stessi seggi vigilati
e protetti dall’esercito, nelle sezioni che, ad esempio, non hanno aperto i
battenti perché si sono creati forfeit fra il personale preposto all’assistenza
al voto. Lì gli iscritti non hanno potuto espletare le operazioni. Anche questi
rientrano fra gli incidenti menzionati dal ministro dell’Interno Barmak come
intralcio al voto, certo meno sanguinario di quelli provocati da assalti o
dall’uso di Ied.
venerdì 19 ottobre 2018
Afghanistan, a due giorni dal voto i talebani eliminano il loro torturatore
Perdere il responsabile della sicurezza del sud dell’Afghanistan
è un segno di grande debolezza per il governo che va alle elezioni fra due
giorni. I talebani, ortodossi o dissidenti, hanno compiuto quest’azione per
esaltare una crisi palese già evidente da anni. L’ammette anche il segretario
alla Difesa statunitense Mattis che intervenendo sull’omicidio eccellente
chiosa che la morte del generale Raziq “è
una tragica perdita”.
Quest’uccisione fa calare la maschera all’essenza stessa del Resolut support, la presenza militare di
sostegno ai fantocci politici di Kabul voluta da Washington e praticata dagli
alleati Nati, fra cui spiccano i governi romani d’ogni colore (continuiamo ad avere
in loco 893 costosi “consiglieri” alla difesa). Ma tutti questi addestratori,
preparatori, tecnici militari e ufficiali non riescono a difendere gli stessi
capi delle strutture della forza del Paese occupato, visto il modo in cui Raziq
è stato ucciso.
In un compound “segreto” a Kandahar dove stava incontrando
nientemeno che il comandante dell’Intelligence locale, una guardia del corpo ha
sparato a entrambi freddandoli. Non si è trattato d’una momentanea follìa
dell’uomo di scorta, ma di una infiltrazione giunta a buon fine da parte di
quei talebani, tendenzialmente ortodossi, che controllano gran parte della
provincia. Oltre a stabilire le gerarchie di chi comanda in quella e altre zone
i taliban, che non hanno rinunciato al tavolo di trattative lanciato nei mesi
scorsi dagli Stati Uniti, sottolineano la facilità con cui possono ricorrere ad
agguati distruttivi per poi farli pesare politicamente. Fa parte del messaggio
anche il mancato coinvolgimento in quest’attentato del generale statunitense
Miller, rimasto illeso al fianco dei due bersagli, pensiamo non certo per
casualità, bensì per scelta così da poter ribadire al suo Paese una condizione
essenziale per le trattative di pace: la fine dell’occupazione straniera.
Il generale Raziq era conosciuto come “capo torturatore di Kandahar”.
Odiato da talebani, di cui era acerrimo nemico, e anche da tanta popolazione
sottoposta a rapimenti e sevizie perché accusata d’essere un sostegno per
l’insorgenza. Era invece lodato come un patriota - e non solo ora ch’è morto -
dai leader politici degli ultimi anni (Karzai e Ghani), dal comando Nato e da
vari direttori della Cia. Di certo gli addestramenti particolari che l’Intelligence
statunitense impartisce alla polizia afghana, avevano trovato nel pashtun che
girava le spalle alla sua etnìa un interprete molto zelante. La ferocia con cui
Raziq aveva agito in svariate occasioni faceva di lui un soggetto venerato dai
suoi reparti, temuto dalla gente, odiato dai turbanti. Esisteva anche una
narrativa attorno ai molteplici attentati (si parlava di trenta) cui era
scampato. Alcuni commentatori, evidenziando il ruolo duramente critico avuto
dalla vittima coi vertici pakistani, che accusava d’ingerenza nelle vicende
afghane, lanciano l’ipotesi che a decidere la sua sorte sia stata l’Isi
pakistana. Un risvolto tutt’altro che nuovo negli oscuri meandri creati dalle
agenzie in tutta la regione.
mercoledì 17 ottobre 2018
Caso Khashoggi, la mala-geopolitica
Sulla vita, quasi sicuramente perduta, e sulla pelle
dell’opinionista Jamal Khashoggi la geopolitica sta giocando una partita
complessa nello spigoloso triangolo di alleanze volute e di comodo fra Stati
Uniti, Arabia Saudita e Turchia. Il presunto delitto, diventato caso
internazionale, compiuto in terra turca per mano d’un manipolo di agenti vicini
al principe bin Salman, sorvegliati in ogni modo da colleghi turchi che
dispongono di prove scottanti sull’efferatezza e il cinismo del gesto, mettono
al cospetto di Trump, Salman jr ed Erdoğan il caso esplosivo. Il presidente
americano, dopo aver tuonato contro l’inavveduto rampollo della petromonarchia,
dà pieni poteri di rappresentarlo al Segretario di Stato Pompeo e lui usa un
linguaggio molto più che diplomatico. Usa i toni untuosi della politica internazionale
che trattano ogni argomento, anche il più scabroso coi guanti per poterlo
maneggiare anche quando, come in questo caso, gronda sangue. Così il faccia a
faccia fra Pompeo-bin Salman è risultato stucchevole come i paramenti del
salotto che l’ha ospitato, una finzione, un gioco delle parti. Mbs ha ribadito
di non saper nulla e d’indagare a tuttotondo, come se ripetesse il copione
recitato ancor’oggi da quell’altro satrapo dell’area che risponde al nome di al
-Sisi. Chi fa rapire, torturare, assassinare afferma di non sapere e
d’impegnarsi a chiarire.
Ma su Khashoggi non trascorreranno mesi e anni per comprendere
chi siano mandante e assassini. Parecchio è chiaro, i secondi sono quasi
scoperti. A fare le pulci a ciò che la politica prova a celare, seppure fra
ricatti ricorrenti e contropartite, è la stampa internazionale, anche quella
blasonata che non si prostra al potere. Così il New York Times rompe le uova diplomatiche portate da Mike Pompeo a
Riyadh. La testata newyorkese pubblica una serie d’immagini che mostrano un
uomo, Maher Abdulaziz Mutreb, già ‘funzionario’ a Londra oltre un decennio fa e
probabile guardia del corpo del principe bin Salman. Certamente nei mesi scorsi
sua ombra in ogni viaggio, specie occidentale (Madrid, Parigi, Houston, Boston).
Mutreb appare in ogni foto scattata alla delegazione saudita, a debita distanza
ma con lo sguardo puntato sulla keffia reale. E nella ricerca del pool
giornalistico statunitense non è il solo. C’è almeno un altro fedelissimo
agente della guardia personale di Mbs fra la quindicina di appartenenti
all’Intelligence di Riyadh sbarcati e volati via da Istanbul nella giornata del
2 ottobre su jet privati. In più gli zelanti colleghi turchi, che hanno
registrato voci e grida all’interno del consolato dalle spade incrociate, hanno
diffuso la nota della presenza anche del dottor Muhammad al-Tubaigy, medico
forense accreditato presso il ministero degli Interni saudita.
Professionista noto per le sue pubblicazioni su autopsie mobili. Sarebbe
stato lui a praticare la dissezione del cadavere del giornalista in pochi
minuti, da sette a dieci. Eppure in questo fosco scenario fosco la geopolitica
che definisce ‘carognesco’ il delitto sta già cancellando le responsabilità del
mandante, senza inchiodarne i referenti pescati da inchieste giornalistiche e
dall’azione del Mıt. Gli Stati Uniti non rischieranno di disfarsi del potente
seppure invadente principe che per capacità ciniche e autoritarie risulta una
pedina utile nella regione, come utili sono gli al Sisi, gli Haftar, anche un
Asad disponibile e orientato non solo verso Mosca. Erdoğan chiuderà gli occhi
su un delitto rivolto a una categoria che certamente non ama, soprattutto se
verrà aiutato dai petrodollari a superare le difficoltà finanziarie del Paese che
da mesi si riverberano sui vertici politici. Che questa sia la strada lo
dimostra un’altra sparizione, senza delitto, stavolta del console saudita
al-Otaibi, la cui abitazione è stata perquisita dopo che la sua voce era riconoscibile
nella registrazione-chock con torture (col taglio delle dita) inferte a Jamal
Khashoggi, prima del definitivo assassinio e dello smembramento del suo corpo. Otaibi
già da due giorni è rientrato a Riyadh. Dal 2 ottobre scorso nessuno l’aveva fermato.
lunedì 15 ottobre 2018
Afghanistan oltre le elezioni
Ha viaggiato per una dozzina di giorni attraverso
Afghanistan, Pakistan, Emirati Arabi, Arabia Saudita e Qatar Zalmay Khalizad,
l’uomo che il presidente americano Trump ha nominato da una quarantina di
giorni suo inviato speciale per l’Afghanistan. Ora, a Doha, ha avuto il primo
incontro coi Talebani, che dall’estate scorsa hanno incontrato una delegazione
statunitense. Le due sponde discorrono attorno a possibili accordi di pace, quel
piano che il presidente afghano Ghani fa suo da mesi rivendendolo nelle
elezioni in scadenza del prossimo 20 ottobre. In alcuni distretti si sta già
votando, in altri è impossibile farlo o comunque pericoloso. Venerdì a Takhar (120
km est da Kunduz) la zona circostante a un seggio è stata oggetto d’un
attentato che ha ucciso 14 persone e ferito oltre trenta. E’ il quarto della
serie, stragi compiute non dai talebani colloquianti, ma da coloro che dissentono
dalla linea tenuta a Quetta, parlano di Califfato e duettano col Daesh
firmandosi Isis afghano. I turbanti ortodossi, nonostante i ripetuti inviti
governativi a entrare nel governo e in Parlamento, boicottano la consultazione
elettorale, però non attuano la linea aggressiva tenuta altrove. La linea del
controllo del territorio che in tante occasioni li ha spinti ad attaccare
l’esercito nazionale, fuori e dentro le caserme, tanto per mostrarne
inefficienza e palesi limiti organizzativi ed esecutivi.
Infatti a Ghazni, nella settimana di fuoco dello scorso agosto, la
forza talebana ha umiliato l’Afghan National Army, sebbene quest’ultimo la
sopravanzasse numericamente. Per l’ennesima volta sono stati i marines a
salvare gli alleati in divisa e tale fattore, assieme al controllo totale di
sette, otto province, e parziale di un’altra decina, convince diversi capi
talib di poter riprendersi Kabul, non solo per attentati o azioni dimostrative.
Comunque una componente talebana non esclude i colloqui. Ha solo finora posto
un’unica condizione: ritiro delle truppe Nato, che significa un proprio dominio
assoluto su ogni provincia afghana, visto la vaghezza delle forze armate
locali. Allora, se non ci sarà quell’abbandono del dialogo accaduto in altre
circostanze, ciò di cui si discuterà è chi e cosa resterà in terra afghana. I
passi di Ghani, suggeriti dal Pentagono prima ancora che dalla Casa Bianca,
propongono ai taliban l’ingresso in un’alleanza di governo, in cambio
chiederanno il mantenimento delle nove basi strategiche, create nei 17 anni
d’occupazione statunitense. Le basi degli F16, degli AC-130, dei droni che
decollano verso obiettivi diversi ma sempre portando morte e stabilendo
dominio. Mollare questo bene strategico è per ogni amministrazione statunitense
impossibile.
Non si tratta di posizioni democratiche, repubblicane o tantomeno
personali alla Trump, la natura strategica di Washington prevede presidio e controllo
in aree considerate strategiche, ovunque nel mondo. E nel Medio Oriente
profondo oggi misure e contromisure si sono addirittura accresciute rispetto al
2001. Allora torniamo a Khalilzad, un pashtun di Mazar-e Sharif, già
ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite durante l’era Bush jr, formatosi
in epoca dell’invasione sovietica al suo Paese alla Columbia University e già
nel 1985 funzionario per il Dipartimento di Stato americano. Questo per dire
che il diplomatico, oggi sessantasettenne, è un afghano fedelissimo alla
politica Usa che ha servito in varie epoche le più varie strategie attuate dallo
Studio Ovale. Tutto ciò non sfugge agli interlocutori in turbante, e seppure
dovessero non essere completamente aggiornati su curriculum e trascorsi,
saranno i concetti messi nero su bianco a confrontarsi. I taliban diranno: via
le truppe, la delegazione guidata da Khalilzad non cederà sulle basi. E’ qui il
nodo. Per il resto, e per Ghani stesso o chi lo dovesse rimpiazzare, i
fondamentalisti di Quetta potranno unirsi a quelli che già siedono nella Loya
Jirga.
sabato 13 ottobre 2018
Mohammad, Ahmed, Afifi martiri in corsa per la vita
Corrono verso la morte.
Cos’altro possono fare il ventunenne Mohammad, due Ahmed, uno 27 l’altro 17
anni, Afifi 18 e altri giovani, ammazzati ieri in sette, bersaglio fisso e
mobile dell’esercito israeliano sul confine di Gaza? Cosa possono fare quei
giovani uomini e donne sui quali si scaricano pallottole dal 30 marzo scorso e
hanno visto distesi duecentoquattro cadaveri di fratelli e sorelle. E migliaia,
migliaia di feriti. Ogni venerdì una mattanza giustificata dai killer con
ordini precisi, dagli statisti d’uno Stato criminale un’autodifesa a difesa del
diritto di assassinare i palestinesi. Cosa può fare questa gente abbandonata,
frustrata, derisa dal mondo che guarda altrove, ai suoi tanti drammi certo, ma
lasciando alla deriva tal’altra tragedia diventata crimine perpetuo da
settant’anni. Cosa possono fare le giovani vittime di reiterate negazioni del
diritto a vivere coi propri cari e lavorare e studiare nei luoghi secolari abitati
dalla propria gente. La protesta bersagliata dal piombo di Tsahal questo dice:
diritto al ritorno nelle terre dei padri per i rifugiati ammassati da decenni
nei campi profughi del Medio Oriente.
E da mesi, ogni venerdì,
sul confine della Striscia si ripete il macabro rituale del sanguinario tiro al
bersaglio su quella richiesta di ragione violata. Un privilegio che Israele
reclama per sé, introducendo coloni che nulla hanno a che fare con quella terra
poiché i loro avi hanno vissuto altrove, da secoli. E anche la proposta di far convivere
accanto gli uni e agli altri, con simili regole, seppur in condizioni
socio-economiche diverse, viene rifiutata per princìpio dai governi di Tel Aviv
che applicano da decenni il piano di cancellazione di Palestina e palestinesi. A
loro non viene concesso nient’altro che emarginazione e oppressione, mentre i
potenti amici di Israele cantano cinicamente una litania di morte. Eppure quei
gazawi su cui Israele spara, corrono per la vita. Il loro agitarsi, urlare,
bruciare copertoni, sventolare stendardi parla di futuro che possono garantirsi
solo rivendicando l’uscita dall’apartheid proposta e praticata dal sionismo
pratica come modello di sistema. Sono ragazzi della vita, non giovani kamikaze
che si danno la morte per una guerra santa. Eppure muoiono anch’essi. Ma
muoiono per la mano d’un boia capace di piegare il senso di giustizia alla sua
volontà di potenza politica, religiosa, razziale.
venerdì 12 ottobre 2018
Caso Khashoggi, la forza delle spie
Il mistero criminale di cui è vittima l’opinionista saudita del Washington Post, Jamal Khashoggi appare
come un’aperta sfida di Intelligence, oltreché ormai come elemento di tensione
regionale. Ieri proprio la testata statunitense che ospitava le valutazioni
critiche di Khashoggi sui regnanti del suo Paese ha rivelato di aver ricevuto
testimonianze sonore e visive dell’agguato teso al giornalista. Egualmente Al Jazeera ha ricevuto quel materiale da
soggetti informati della vicenda che possiamo supporre trattarsi di agenti
sauditi doppiogiochisti oppure del lavoro di spionaggio svolto da cimici e
microcamere installate in loco dal Mıt erdoğaniano per controllare i
concorrenti mediorientali. Così nelle registrazioni si riferiscono ‘voci concitate,
urla strazianti’, con uno scenario più da mattanza mafiosa che da poliziesco
classico. E comunque ciò fornisce un solido elemento a quella che finora era
solo un’ipotesi avanzata da oppositori di bin Salman, sulla tendenza
principesca di far eliminare fisicamente soggetti a lui sgraditi. Del resto, da
oltre un anno, questa è diventata assai più d’una diceria.
Diversi cittadini sauditi sono scomparsi o svaniti nel nulla, e il
principe saudita Khaled bin Farhan, riparato in Germania per garantirsi
l’incolumità, ha rivelato di non aver mai accolto gli inviti rivoltigli dalle
autorità saudite di recarsi al Cairo, neppure quando lo allettavano col ritiro
di assegni a suo favore. Temeva per la sua vita. Ovviamente queste rivelazioni
esplicite e, ancor più, la documentazione in mano ai Servizi turchi, rimasti
inizialmente in attesa, mostrando sulla vicenda quasi un’acquiescenza alla
vaghezza negazionista di Riyadh, stanno ora creando problemi alla corona Saud.
Proprio da parte statunitense c’è una reazione caratterizzata da abbandoni di
contratti pubblicitari di aziende legate all’informazione. Così il gruppo
britannico Virgin ha congelato un fondo d’investimento di un miliardo di
dollari previsto in questa fase in Arabia Saudita. Bisognerà vedere come
reagiranno le componenti a stelle e strisce con cui MbS stabiliva accordi per
diversificare i finanziamenti, cercando alternative ai proventi derivati dagli
idrocarburi. Dunque Wall Street, Silicon Valley, Hollywood.
Più in difficoltà il pluri defezionato staff del presidente
americano che, con gli incaricati che restano e i sostituti di licenziati,
dimissionati e costretti al ritiro, deve giustificare non tanto la folkloristica
“danza delle spade” della primavera 2017 di Trump a Riyadh, ma i benestare
interni e regionali a ogni mossa del principe Saud, anche quelle doppiste e
torbide. Con l’uscita allo scoperto della Turchia, nazione dove la sparizione è
avvenuta e il probabile assassinio compiuto, il rapporto già difficile fra due
megalomani del potere in Medio Oriente (MbS ed Erdoğan) può prendere la piega
peggiore. Il giovane, ben prima dell’incoronazione, si dimostra addirittura più
umorale, inaffidabile, invasivo del politico che ha impiegato 15 anni per
plasmare a suo piacimento la Turchia. Eppure osservatori economici sostengono
che sarà la fase economica e gli interessi di entrambi ad attenuare i furori
dei due competitori. Il reciproco bisogno di ricevere (la Turchia) e far
fruttare i capitali (l’Arabia Saudita) possono attenuare le divergenze, anche
quelle conosciute nell’ultimo decennio. Con Erdoğan, a suo dire, tutore della
spinta rinnovatrice della piazza islamica e bin Salman repressore di ribellioni
in Yemen e di spinte democratiche interne, seppure col contentino d’una “visione
riformatrice” dello Stato. Anch’essa a piacimento, il suo.
giovedì 11 ottobre 2018
Lager Egitto
Ancora sequestri, torture,
violenza anche sessuale, rivolta a oppositori o stranieri considerati
ficcanaso. L’Egitto non smentisce la fama che si è consolidata sotto il regime
di al Sisi, il presidente mandante di omicidi per fare del grande Paese arabo
una piazza del terrore che piace agli autocrati mediorientali e mondiali. Human Right Watch denuncia l’ultimo
caso: un autista di limousine dalla doppia cittadinanza egiziana e statunitense
attivo a New York, è stato fermato dagli uomini della Sicurezza Nazionale nella
zona portuale di Alessandria dove s’era recato per far visita ai familiari. Era
gennaio scorso e il suo travaglio è durato quattro mesi, nei quali è finito immotivatamente
in galera. Lì veniva “interrogato, bastonato, trattato con cavi elettrici in
varie parti del corpo, compresi i genitali”. E’ stato lui stesso tempo dopo a
raccontarlo all’Ong. Le accuse del quarantunenne Khaled Hassan sono esplicite:
“Agenti della NSA (l’Intelligence
egiziana, ndr) mi appendevano per le
braccia, tenendomi in quella posizione anche per giorni, si posizionavano alle
mie spalle e davano ripetute scosse
elettriche alla testa, all’ano, ai testicoli. Poi si piazzavano di fronte per
colpire lingua e inguine”.
Periti e avvocati di HRW hanno preso visione delle lesioni
che l’uomo ha sul corpo, testimoniandolo con immagini. L’autista ha confermato
d’essere stato scarcerato circa un mese dopo la fine dei “trattamenti” quando
le ferite si erano rimarginate. Col rilascio gli è stato comunicato che il suo
nome finiva su una lista nera di soggetti fermati col ‘sospetto di essere
fedeli all’Isis’. Ritorsioni ci sono state anche sulla famiglia: dopo l’arresto
di Hassan la moglie peruviana e i tre figli sono stati giudicati indesiderati e
rimpatriati. Non sarà il trattamento subìto da un semplice lavoratore a
incrinare i rapporti fra Washington e Il Cairo, anche perché il torturato è
sostanzialmente un immigrato con una seconda cittadinanza. Però molti negli
Stati Uniti, la cui amministrazione la scorsa estate ha elargito 195 miliardi
di aiuti militari a Sisi, s’interrogano sul clima interno instaurato nel Paese
alleato dove i diritti umani sono calpestati. Ma la Casa Bianca non va tanto
per il sottile, poiché Sisi nel suo asse con la componente militarista del caos
libico (il generale Haftar), nei buoni rapporti stabiliti con Netanyahu,
continua a essere una pedina preziosa per gli interessi americani. A scapito di
oppositori e di chi sconta la smania seviziatrice della cricca militare
egiziana.
mercoledì 10 ottobre 2018
Aiuto turco alla sparizione di Khashoggi?
La foto segna in sovraimpressione le ore 13, 14 minuti, 36
secondi e il giorno: 2 ottobre ultimo scorso. L’uomo con la giacca scura che
sta infilando un ingresso del consolato saudita a Istanbul è il giornalista Jamal
Khashoggi. L’altro uomo in giacca chiara è probabilmente un addetto alla
sicurezza e osserva la scena. A questo fermo-immagine esaminato dagli
inquirenti turchi non fa seguito il video del circuito televisivo interno, che
sembra sparito anch’esso. Occultato o cancellato, come quello che presso la
fermata metro El Behoos del Cairo riprendeva gli ultimi attimi di libertà di
Giulio Regeni. Nell’attuale mistero della sparizione del giornalista saudita, ricostruito
dal quotidiano britannico The Guardian,
s’aggiunge lo strano invito rivolto dal consolato alla polizia turca di
“prendersi un giorno di riposo”. Incredibilmente sembra che gli agenti di
Istanbul l’abbiano preso. Dunque a vigilare sull’edificio diplomatico c’erano
soltanto apparati dell’Intelligence di Riyadh. Ora gli investigatori che tirano
le fila dell’intrigo immaginano ci sia stato un forzato trattenimento di
Khashoggi nell’edificio, per poi uscirne e dirigersi verso l’aeroporto Atatürk.
Lì, nella sera del 2 ottobre, è stato registrato l’arrivo di sei auto.
In una di esse, oppure in un Van scuro parcheggiato di fronte
all’ingresso del consolato (e visibile anche nell’unico fotogramma in possesso
degli investigatori) c’era il giornalista oppure il suo cadavere occultato. Dall’aeroporto
internazionale sono partiti due voli privati sauditi, uno verso il Cairo (che
dopo lo scalo ha proseguito per Riyadh), l’altro diretto, senza soste, a Dubai.
Ma mentre in Occidente i dicasteri degli Esteri statunitense, britannico, francese si pronunciano perché
sulla vicenda ci sia totale trasparenza, il governo di Ankara mostra alcune
viscosità. Ai fermi pronunciamenti del presidente Erdoğan sulla soluzione del
caso, sono recentemente seguiti comunicazioni altrettanto ufficiali del suo
portavoce addirittura rassicuranti verso i Saud, che “non possono essere
biasimati”. Un cerchiobottismo che gli analisti economici mettono in relazioni
ai molteplici interessi e scambi fra i due Paesi, in una fase in cui crollo
della moneta turca e altre vicende finanziarie, condurrebbero i vertici di
Ankara a non crearsi inimicizie con la maggiore delle petromorchie, seppure
essa è una competitrice regionale. Resta, però, la questione “del riposo dei
poliziotti turchi”, se la notizia fosse confermata mostrerebbe una collusione
coi piani sporchi dell’Intelligence di Riyadh. Anche quei poliziotti e i loro
superiori favorevoli alla “distrazione” rientrano nello Stato profondo gülenista
che trama contro il Paese?
martedì 9 ottobre 2018
Saud, la modernità del terrore
Sospetti e ipotesi tante, prove però nessuna. Così il giallo
attorno alla fine di Jamal Khashoggi resta sospeso fra illazioni e accuse,
smentite e rassicurazioni. Tutte di parte, e tutte sostenute da una volontà
politica. In seguito della sparizione del commentatore del Washington Post, preventivamente uscito dal suo Paese per non
incorrere in qualche azione repressiva dovuta alle reiterate critiche al metodo
di Mohammad bin Salman, è aumentato il numero di proteste anti saudite.
Nuovamente a Istanbul sotto il consolato-antro che ha inghiottito Khashoggi, si
sono riuniti manifestanti con la presenza di volti noti dell’impegno per i
diritti umani, spiccavano quelli della yemenita premio Nobel per la pace 2011,
Tawakkol Karman e del dissidente egiziano Ayman Nour. In più sulla stampa
internazionale sono riportate le testimonianze di molti sauditi, già repressi
all’epoca della primavera 2011, finiti in galera o se, facilitati da una
corposa possibilità economica, riparati all’estero. Alcuni casi di dissidenza
sono noti, iniziati prima dell’avvento di MbS e comunque proseguiti nell’ultimo
biennio con una metodica degna della peggior coercizione oggi sulla scena
mediorientale.
Un termine di riferimento è l’Egitto di al-Sisi, e con la
capacità di celare i misfatti tramite l’occultamento delle notizie e azioni più
che palesemente poliziesche, affidate ai sotterfugi di un’Intelligence che
agisce nell’ombra. Il clima di terrore, lo conferma chi ha concesso interviste
pubblicate su New York Times, The Guardian, Le Monde raccontando la propria esperienza, produce omertà e paura.
“Incontrando all’estero altri sauditi
difficilmente si parla, perché sotto la kefia o dietro la cravatta del
businessman può nascondersi una microspia”. Questo clima s’accompagna alla
propaganda liberale, modernista del principe che agisce da re, che si fa bello
d’un progetto sbandierato ai quattro venti con l’enfasi del caso: permesso di
guida alle donne, consenso offerto al genere femminile di frequentare spettacoli
cinematografici e manifestazioni sportive. Una Rivoluzione dei costumi. Tutto contro
la mentalità iper tradizionalista del salafismo wahabbita ben radicato nel
Paese, comunque protetto e finanziato da innumerevoli attività finanziarie di
privati e dello stesso Stato.
Il modernismo che bin Salaman afferma di lanciare
contro il fondamentalismo di casa, di fatto non sfiora madrase e predicatori
estremisti. Lo stesso ‘armarsi di più e
meglio’ (nel 2017 l’Arabia Saudita è al terzo posto nella graduatoria mondiale
dopo Usa e Cina) sostenuto dal principe per combattere il terrorismo, si
traduce nell’alimentare guerre locali come quella contro i ribelli yemeniti.
Non risulta che ci siano stati, né ci siano, interventi repressivi contro
quelle cellule jihadiste presenti in questi anni nella penisola araba. La
"sicurezza" interna viene perseguita, appunto, censurando il pensiero critico verso
i modi passati e i progetti presenti del clan Saud, peraltro colpito da lotte
intestine, intrighi e purghe. Come noti raìs mediorientali - coronati, laici e
religiosi - MbS insegue una politica accentratrice, autoritaria,
personalistica. Utilizza il doppio binario d’una pseudo liberalizzazione dei
costumi, per conservare un potere classista profondamente antidemocratico. E
chi critica può sparire senza lasciare tracce. Come Khashoggi.
domenica 7 ottobre 2018
Caso Khashoggi, delitto probabilmente senza castigo
S’infittisce e
s’ingarbuglia il mistero sulla sparizione di Jamal Khashoggi, il giornalista
saudita critico verso la politica della petromonarchia, scomparso a Istanbul
all’interno del consolato del suo Paese. E diventano tesi anche i rapporti fra
i due Stati. Il crimine sarebbe stato compiuto all’interno di quell’edificio,
addirittura con un trasporto in altro luogo del cadavere dell’uomo. Ovviamente
illazioni, cui gli addetti alle pubbliche relazioni del consolato rispondono
decisi che nulla di tutto ciò è accaduto, che lo stabile è aperto e disponibile
a qualsiasi sopralluogo. Uno è stato fatto compiere a un gruppo di giornalisti,
guidati da funzionari della struttura diplomatica. Il partito di maggioranza
turco Akp è intervenuto con un comunicato, affermando come l’enigma sarà
svelato, poiché l’amministrazione ritiene la vicenda sensibile di un’altissima
attenzione. Mentre l’agenzia Anadolu
ha ribadito che se ne sta occupando il presidente Erdoğan in persona. Su alcuni
social network, soprattutto Twitter, sono
apparsi cinguettii firmati da chi, al contrario, sostiene che l’insieme delle
cose è assurdo, e Khashoggi è vivo.
Uno l’ha lanciato anche Hatice
Cenzig, la fidanzata turca dello scomparso, possiamo pensare che si tratta di
speranze. Finora tutti i punti di vista sono basati su impressioni e
congetture. Certo, se la scelta di eliminare l’opinionista del Washington Post trasferitosi da tempo
negli Stati Uniti, all’interno di una struttura sotto giurisdizione saudita,
fosse una mosse dei mukhabarat di Ryiad, l’idea risulterebbe tutt’altro che
geniale. All’inverso l’agguato potrebbe essere opera di nemici del
criticatissimo Mohammad bin Salman per far ricadere i sospetti sul suo staff. O
ancora: nessuno ha ucciso o rapito l’uomo, è lui stesso a essersi dileguato,
aiutato magari da complici, per evitare guai alla sua persona. Eppure a queste
scontate considerazioni se ne potrebbero aggiungere molte altre. Di fatto gli
inquirenti turchi si trovano di fronte a un caso complesso, un possibile
intrigo internazionale alla stregua di quello dell’assassinio dell’ambasciatore
russo Karlov nel dicembre 2016, terminato con l’eliminazione dell’attentatore,
un poliziotto turco delle squadre antisommossa, che si portò nella tomba
informazioni su possibili mandanti.
Nel sovrapporsi delle
notizie appare anche una che parla di funerali fra un paio di giorni. Funerali
di Khashoggi, ovvio, senza che ci sia il cadavere, come nei migliori
polizieschi classici. Lì gli Holmes o i Poirot non si lasciano sfuggire tracce
con cui risalgono alla catena e ai moventi dei delitti, con la differenza che i
misfatti comuni, anche i più efferati, mancano di quella ragnatela omertosa che
i crimini di Stato, di qualunque Stato, sono capaci. Basti pensare alle
eliminazioni al polonio di Livtinenko, a quella che riguarda il nostro Giulio
Regeni o, per restare nella Turchia erdoğaniana che ora si presta alla
soluzione dell’intrigo, all’omicidio dell’avvocato dei diritti Tahir Elçi assassinato
in pieno giorno, durante una conferenza stampa per le vie di Dıarbakır. Che quella
di Khashoggi possa essere una sparizione mirata per azzittire una voce del
dissenso lo pensano alcuni attivisti anti Saud che hanno dimostrato, in poche
decine per le strade di Istanbul. Secondo la loro denuncia l’ipotesi
dell’omicidio è reale, e il delitto senza cadavere può assumere i contorni di
quei delitti di mafia dove corpo della vittima è smembrato, gasato, liquefatto.